Il futuro del clima passa per le elezioni americane
In che direzione andrà la politica ambientale statunitense dopo il 5 novembre? Le posizioni dei candidati in corsa per la Casa Bianca la dicono già lunga
L’esito delle prossime elezioni presidenziali determinerà l’evoluzione della politica ambientale statunitense, ma dalla sfida tra Donald Trump e Kamala Harris non dipendono soltanto le azioni che il Paese intraprenderà per contrastare il cambiamento climatico e mitigarne gli effetti. La vittoria dell’uno o dell’altra determinerà la capacità degli Stati Uniti di competere per la leadership della transizione ecologica mondiale, scalfendone o consolidandone la credibilità ai tavoli della diplomazia climatica. La posta in gioco è molto alta, trattandosi di uno dei principali responsabili delle emissioni di gas a effetto serra del pianeta.
Il passato dei candidati e il modo in cui hanno deciso di affrontare questi temi in campagna elettorale non ci consentono di prevedere il futuro, ma possono rappresentare un buon metro di valutazione per capire in quale direzione potrebbe andare la politica ambientale americana dopo il voto del 5 novembre.
Durante i suoi quattro anni al civico 1600 di Pennsylvania Avenue, Donald Trump ha revocato o annullato più di cento norme ambientali, senza mai nascondere la propria avversione per le energie rinnovabili e i veicoli elettrici. Ergendosi a strenuo difensore delle fonti fossili e della necessità di sfruttare «l’oro liquido» che scorre sotto i piedi di ogni americano, ha demolito pezzo dopo pezzo l’eredità ambientale del suo predecessore, e non solo sul fronte delle politiche nazionali. Nel 2017 ha sancito il recesso degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, siglato appena un anno prima dall’amministrazione Obama, minando così l’affidabilità del Paese ai tavoli della diplomazia climatica internazionale. Il rientro nell’accordo è stato uno dei primi provvedimenti siglati da Joe Biden dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, ma se Trump dovesse vincere le prossime elezioni non esiterebbe a fare di nuovo dietrofront, vanificando l’impegno messo in campo dall’attuale amministrazione per trasformare gli Stati Uniti in partner affidabili e protagonisti della lotta globale alla crisi climatica.
In questi ultimi anni, l’ex presidente non ha mai abbandonato la via del negazionismo e non ha perso occasione per sminuire o confutare la portata dei cambiamenti climatici, affermandosi come un vero e proprio “influencer” nella diffusione di notizie false e teorie del complotto su questi temi. Dall’annuncio della discesa in campo di Kamala Harris ha dato vita a una campagna di disinformazione capillare sulla politica climatica della candidata democratica, diffondendo meme e fake news su immaginari divieti al consumo di carne rossa o all’utilizzo dei fornelli a gas per combattere il riscaldamento globale. La tattica è semplice e collaudata: travisare le posizioni dell’avversaria per farle apparire estreme e inaccettabili.
Oltre all’abbandono dell’accordo di Parigi, Trump continua a rilanciare soprattutto due promesse. La prima è che sfrutterà le fonti fossili per ridurre il costo dell’energia e porre fine alla crisi inflazionistica, rendendo gli Stati Uniti una «potenza energetica globale», capace non solo di mostrarsi autosufficiente ma anche di rifornire il resto del mondo. La seconda è che salverà l’industria automobilistica statunitense dalla «completa distruzione», eliminando sin dal primo giorno il mandato dell’amministrazione Biden sulle auto elettriche e imponendo una tariffa del 100-200 per cento su ogni auto cinese, così da renderle tutte invendibili su suolo americano. Sono entrambe promesse che Trump porta avanti da mesi, da molto prima che la campagna elettorale entrasse nel vivo, e che hanno trovato il giusto spazio sul palcoscenico della convention repubblicana.
La posizione del tycoon è molto chiara: politiche ambientali come quelle varate dall’amministrazione Biden per incentivare la transizione ecologica non sono altro che una truffa. Locuzioni come «Green New Scam» di recente sono entrate a far parte anche del lessico dell’uomo che Trump ha scelto per affiancarlo nella corsa alla Casa Bianca, il senatore dell’Ohio James David Vance.
Oggi Vance si presenta come un fervente sostenitore dell’industria dell’oil and gas, dichiarandosi contrario all’energia solare e ai veicoli elettrici, ma in realtà non è sempre stato così: la sua conversione al trumpismo non ha risparmiato il suo posizionamento sulle politiche ambientali. Nel 2020, durante un discorso alla Ohio State University, Vance aveva chiaramente affermato che «la società si trova di fronte a un problema climatico». Aveva definito il gas naturale una fonte ideale per la transizione rispetto ad altre più inquinanti ma comunque non «il genere di cosa che ci porterà a un futuro energetico pulito», arrivando addirittura ad elogiare l’energia solare. Dall’esatto momento in cui Vance ha iniziato a cercare il sostegno di Trump per la sua candidatura al Senato, le sue posizioni sul cambiamento climatico hanno subito una brusca inversione. Così, appena due anni dopo quel discorso, ha iniziato a definirsi scettico rispetto all’idea che la crisi in corso sia causata «esclusivamente dall’uomo», attaccando gli ambientalisti e schierandosi a favore del fracking. In un lungo saggio di opinione pubblicato sul Marietta Times ha affermato che gli Ohioans dovrebbero ritenersi fortunati a vivere in cima al bacino Utica Shale, che contiene circa 940 milioni di barili di petrolio e 208 milioni di barili di gas naturale, e ha elogiato le tecniche come il fracking che permettono di «liberare queste abbondanti risorse». Del programma di Donald Trump condivide ogni aspetto: dalla necessità di fare marcia indietro su politiche orientate alla transizione ecologica, come l’Inflation Reduction Act che lui stesso ha già provato ad affossare, all’imposizione di dazi elevati su tutti i veicoli cinesi importati negli Stati Uniti.
La differenza di vedute tra i candidati repubblicani e democratici non potrebbe essere più netta, malgrado nelle ultime settimane Kamala Harris abbia deciso di abbassare i toni e concentrarsi su temi che eserciteranno un peso maggiore sulle scelte di voto degli americani rispetto alla crisi climatica. Non si può fare a meno di notare che le posizioni della vicepresidente sulle fonti fossili abbiano subito un ridimensionamento durante gli ultimi quattro anni, e un esempio lampante lo ha fornito lei stessa nel corso della sua prima intervista da candidata democratica. Ai microfoni della CNN, Harris ha dichiarato che non bandirà il fracking, contrariamente a quanto sostenuto in occasione delle primarie del 2020. «I miei valori non sono cambiati», ha affermato, chiarendo che la sua esperienza alla Casa Bianca ha dimostrato che è possibile realizzare la transizione energetica senza ricorrere a un simile divieto. D’altronde, il fatto che sotto l’amministrazione Biden le fonti rinnovabili stiano crescendo a ritmi sostenuti non ha impedito agli Stati Uniti di diventare il più grande produttore di petrolio al mondo né di produrre più gas naturale che mai. La mossa di Harris potrebbe essere letta come un tentativo di influenzare l’esito delle elezioni soprattutto in uno Stato chiave come la Pennsylvania, dove sul fracking si gioca una delle battaglie più dure.
Il passato della candidata democratica evidenzia comunque il suo forte impegno per la causa ambientale. In qualità di procuratrice generale della California, si è occupata di diverse cause contro compagnie petrolifere e del gas e ha indagato sulle presunte pratiche ingannevoli messe in campo dalla Exxon Mobil Corp. per nascondere al pubblico gli effetti dei cambiamenti climatici. Alle primarie del partito, nel 2019, ha presentato un’agenda climatica persino più ambiziosa di quella di Biden, mentre in qualità di vicepresidente si è fatta spesso portavoce delle priorità dell’amministrazione, raccontando l’Inflation Reduction Act in tutto il Paese. In caso di vittoria Kamala Harris raccoglierebbe il testimone dal suo predecessore, proseguendo lungo il solco tracciato negli ultimi anni.
Quando si parla di sensibilità ambientale il suo braccio destro non è da meno, anzi; il Minnesota deve a Tim Walz l’adozione di numerose e ambiziose politiche sul clima. Nel 2019 il governatore ha istituito un consiglio consultivo con il compito di sviluppare strategie che potessero rendere il North Star State più resiliente rispetto agli impatti del cambiamento climatico. Il testo dell’ordine esecutivo si riferiva alla crisi ambientale nei termini di una «minaccia esistenziale». Su spinta di Walz si è arrivati all’adozione del Minnesota’s Climate Action Framework: un quadro d’azione per il clima che impone allo Stato di ridurre le proprie emissioni di gas serra del 50 per cento entro il 2030 e del 100 per cento entro il 2050, attraverso misure come incentivi all’acquisto di veicoli elettrici, il ripristino delle foreste e la creazione di posti di lavoro nelle infrastrutture per l’energia pulita. A febbraio dello scorso anno, Walz ha firmato una proposta di bilancio che stanzia centinaia di milioni di dollari per incentivare iniziative come l’installazione di pannelli solari o l’acquisto di auto elettriche. Il suo lungo curriculum di azioni per il clima contiene anche qualche pecca, come il rilascio delle autorizzazioni che hanno permesso la costruzione dell’oleodotto Line 3, fortemente criticato dagli ambientalisti.
Oggi, però, i grandi gruppi di difesa ambientale come il National Resources Defense Counsil non hanno alcun dubbio: il ticket Harris-Walz è un’accoppiata vincente per il clima.