Elegia repubblicana, l'avventura di J.D. Vance
La conversione al trumpismo del candidato al Senato in Ohio è impressionante, ma affonda le radici più nella trasformazione del modo di fare politica nel GOP che nel mero opportunismo.
Prima di diventare una delle voci più rumorose e chiassose dell’universo trumpiano, J.D. Vance aveva un gusto per le metafore articolate ed evocative. All’epoca The Atlantic non era solo uno spunto per prendere in giro l’eloquio di Obama su Twitter, ma il luogo dove Vance esprimeva la sua idea di conservatorismo. Scriveva nel 2016 che un candidato alle primarie del Partito Repubblicano agiva come l’eroina e gli oppioidi che avevano invaso il suo Ohio:
Trump è eroina culturale. Fa stare bene qualcuno per un po’, ma non offre un rimedio a ciò che li fa stare male, e un giorno lo capiranno.
Il giornalista David Graham ha ripreso ultimamente quel pezzo lanciando frecciate all’ormai candidato del nuovo Partito Repubblicano trumpiano al Senato, con tanto di endorsment e slogan MAGA: «Ha evidentemente deciso che l’eroina culturale di Trump è troppo potente e irresistibile, quindi era meglio diventarne il pusher».
Di certo la conversione di Vance sulla via del Congresso è apparentemente impressionante, e si capisce perché Donald Trump abbia trovato l’occasione troppo invitante da resistere, dimostrare quanto forte fosse la sua presa sul partito. Vance era diventato famoso con il suo libro Hillbilly Elegy, un racconto dei suoi anni di vita nelle zone rurali di Kentucky e Ohio. «La povertà è tradizione di famiglia», in luoghi dove la deindustrializzazione aveva impoverito larghe porzioni della popolazione, in cui aveva più colpito l’epidemia di oppioidi degli ultimi decenni. Rassegnazione, povertà, declino. Queste sono le cose da cui Vance dice di essersi emancipato, attraverso Yale, i Marines e poi il lavoro prestigioso nella società del miliardario Peter Thiel.
Quello che era un libro sulle relazioni famigliari dell’autore, sul suo cammino via dalla desolazione del posto dove era cresciuto, sulla sua lotta personale per il successo, diventò nella mente di molti tutt’altro. Il momento in cui uscì aiutò in questo. Era proprio il 2016, nel mezzo della campagna presidenziale di Trump, e mentre pochi riuscivano davvero a capire l’origine del consenso dietro questo inusuale e dirompente candidato, la narrazione di quel libro sembrava descrivere nel dettaglio il carattere dell’elettore trumpiano: bianco, impoverito, arrabbiato e disilluso, ignorato sia dalle élites liberal distratte dall’identity politics che da quelle repubblicane impegnate a favorire la globalizzazione e iniziare guerre in Medio Oriente.
Vance naturalmente colse al balzo la cosa. Il suo libro era diventato un testo profetico per una classe di opinionisti in confusione. Divenne una presenza regolare su pubblicazioni, tv e social. Tuttavia qualcosa cambiò negli anni. La sua profezia, che «un giorno lo capiranno», non si era avverata, anzi l’eroina funzionava, la presa sul partito si rafforzava, e stava producendo risultati elettorali e nelle nomine nelle corti. Dalla CNN e The Atlantic passò a Tucker Carlson. Improvvisamente nella sua narrazione da opinionista c’era una similitudine tra le persone che descriveva nel libro e l’elettorato a cui parlava Trump. Le diagnosi di entrambi riguardo ciò che sembrava essere andato storto nel vecchio cuore manifatturiero del Paese avevano molti più punti in comune.
Nel libro parlava molto della “deresponsabilizzazione” degli hillbillies, il continuo incolpare chiunque tranne che se stessi per la propria miseria. Ora però gli dava ragione, era colpa dell’immigrazione, dei liberal e dei cinesi. Aveva capito quello che chi subito, chi tardi ha capito nel GOP: c’è un modo di parlare all’America arrabbiata e vincere le elezioni, e Trump lo incarna. «Se davvero mi interessano queste persone e le cose a cui tengo, mi devo dare un pizzicotto sulla pancia e devo supportalo (Trump, n.d.r.)», ha detto a Time.
Vance ha dopotutto vinto delle primarie in Ohio in cui quasi tutti i candidati disperatamente hanno cercato di ottenere l’endorsement di Trump. Josh Mandel, l’altro serio contendente per la nomination, oltre a Matt Dolan, è egli stesso un trumpiano di un’ora meno tarda di quella di Vance, ma l’intercessione di Thiel, oltre forse a un buon senso dell’umorismo, ha convinto l’ex Presidente. Dopotutto cosa c’è di più soddisfacente per il leader di una setta dell’accogliere un ex duro critico ora convertito? Dare l’endorsement all’uomo che lo aveva chiamato «America’s Hitler» e che ora mendicava il suo appoggio era una dimostrazione di forza che non si è fatto sfuggire.
Non importa che alla fine Vance aveva ragione quando diceva che Trump non offriva nessuna soluzione. Da Presidente, Trump non ha dato il via al ritorno in massa del manifatturiero, non ha costruito il muro, la guerra commerciale alla Cina è stata deleteria, la sua mancata risposta alla pandemia ha portato ad un disastro sanitario, il suo unico mandato è finito con un'insurrezione violenta contro il Congresso. Tuttavia, questo evidentemente non importava di fronte alla possibilità di vincere le elezioni.
Forse perché il GOP, come altre destre estreme in Occidente, non è più interessato ai programmi, alle policy, ma nello sfruttare la rabbia che i problemi reali causano, creare dei target per quella rabbia e capitalizzarne il potenziale elettorale, ad ogni costo. In questo è aiutato da un sistema elettorale che ormai premia chi, con il gerrymandering sullo sfondo, galvanizza e porta alle urne la più ampia fetta della propria base, senza necessariamente cercare di convincere indipendenti sempre più rari.
Il messaggio di Trump funziona perché arriva in un momento in cui la psicologia dell’elettorato è cambiata profondamente. Nella storia recente, mai prima del 2015 un contendente alle primarie del Partito Repubblicano aveva messo così in discussione i pilastri su cui gli Stati Uniti avevano costruito la propria economia nell’era neoliberale, la globalizzazione in primis. George W Bush aveva un modo di parlare alla working class bianca, proprio in Ohio, che era molto diversa.
Il suo conservatorismo compassionevole, con il richiamo alla parte di popolazione lasciata indietro da aiutare, non metteva in discussione il sistema, era complementare all’analisi che poteva essere dedotta dall’esperienza contenuta nel libro di Vance. Entrambi parlavano di e a diverse anime dell’elettore impoverito della Rust Belt e dell’Appalachia, ma in modo simile. Il mondo però da allora è cambiato. Le guerre e la crisi finanziaria hanno aperto praterie per un nuovo modo di fare politica a destra.
Se è motivo di complicato dibattito accademico quanto abbiano fatto bene agli Stati Uniti il libero scambio e la globalizzazione, in posti come l’Ohio la risposta è molto semplice. Il passato quasi prodigioso del manifatturiero in queste zone era un lontano ricordo, e Trump per primo ha dato voce a quello a cui molte persone pensavano, il problema era NAFTA, era la Cina e il Messico. I lavoratori bianchi impoveriti, o che si sentono tali, non erano l’ennesima minoranza abbandonata da aiutare, ma una folla arrabbiata da vendicare e a cui dare un nemico con contorni chiari. Si potrebbe quasi dire che non è Vance ad aver cambiato idea su un certo tipo di fare politica, ma l’elettorato repubblicano.
Vance ha aderito ad un’idea di destra che non ricorda più George Bush, ma George Wallace. È un conservatorismo della rabbia, che ha riportato al centro una mitologia di classe che non si vedeva dagli anni ’70, un inaspettato sviluppo ideologico che forse porta molti commentatori a pensare di poter elevare il trumpismo affibbiandogli una complessa veste intellettuale.
In realtà questo tipo di conservatorismo si nutre di una certa mitologia non perché offra un’alternativa credibile che miri a proporre soluzioni ai problemi che lo nutrono. È un conservatorismo di lotta elettorale, non programmatico, che molti membri dell’establishment repubblicano, Mitch McConnell in primis, hanno usato a piene mani quando si è trattato di riempire le corti e la Corte di giudici amici, ma che gli è esploso in mano. Se anche novembre dovesse dimostrare che la presa di Trump sul partito porta male, magari facendo perdere Vance in Ohio e Oz in Pennsylvania, l’eredità di questo tipo di politica si farà sentire per molto tempo.
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