Soffia il vento del negazionismo climatico
Nell’abisso della disinformazione sul clima, Donald Trump è (ancora) il principale influencer. Alle prossime elezioni c’è in ballo l’impegno americano nella lotta ai cambiamenti climatici
Nel 2012 i blogger Rand Simberg e Mark Steyn, in una serie di articoli, paragonarono il climatologo statunitense Michael Mann a un “molestatore di bambini”, sostenendo che le sue ricerche scientifiche sugli effetti e la rapidità del riscaldamento globale fossero fondate su dati falsi e manipolati. Dopo un processo civile durato quattro settimane, la Corte Superiore del Distretto di Columbia ha accolto il ricorso con cui lo scienziato li aveva accusati di diffamazione, condannandoli a corrispondere un risarcimento di circa un milione di dollari. Il verdetto ha posto fine a dodici lunghi anni di battaglie legali e la speranza di Mann è che possa fungere da monito per i negazionisti: gli attacchi indiscriminati a scienziati e climatologi non possono contare sulla tutela della libertà di parola garantita dal Primo Emendamento. Questa sentenza è una grande vittoria per la verità e gli scienziati, come hanno dichiarato i legali di Mann, soprattutto in questo momento storico. A voler essere realisti, però, la vittoria del climatologo non è che una goccia nel mare, una buona notizia in un oceano di cattive.
Secondo un recente studio del Pew Research Center, solo un terzo degli americani ritiene che gli scienziati siano in grado di comprendere e spiegare i cambiamenti climatici in atto, e meno di un quarto dei cittadini ritiene che siano capaci di indicare come affrontarli. Come se non bastasse, questi dati appaiono anche in netto peggioramento rispetto a qualche anno fa. La percentuale degli americani che sostengono che i climatologi capiscano cosa stia accadendo è passata dal 37% del 2021 al 32% nel 2023, mentre quella di chi afferma che gli scienziati siano in grado di capirne le cause è scesa dal 28% al 24% nello stesso lasso di tempo.
Il sintomo più problematico di questa sfiducia è il rischio che sempre più americani cadano nella trappola del negazionismo climatico, abboccando a teorie del complotto che screditano il lavoro della comunità scientifica e demonizzano le strategie di mitigazione e adattamento individuate per far fronte alla crisi. Il pericolo maggiore è che tutto questo si traduca in una spinta all’inazione.
Questo fenomeno ha già una portata decisamente ampia: oggi, il 14,8% degli americani nega che il cambiamento climatico sia reale. A rivelarlo è uno studio pubblicato dalla School for Environment and Sustainability (SEAS) dell’Università del Michigan, condotto allo scopo di capire come i social network contribuiscano a veicolare contenuti fuorvianti e notizie false sul clima. L’indagine mostra come il negazionismo sia più forte nelle aree centrali e meridionali del Paese, con oltre il 20% delle popolazioni dell’Oklahoma, del Mississippi, dell’Alabama e del North Dakota composto da persone che non credono nel cambiamento climatico. All’interno dei singoli Stati, però, la situazione non è sempre omogenea. In California, ad esempio, meno del 12% della popolazione nega l’esistenza della crisi climatica, ma in una particolare contea, quella di Shasta, a negarla è il 52% degli abitanti.
Gli studi condotti dai ricercatori dell’Università del Michigan e del Pew Research Center, forniscono informazioni chiave per tracciare una sorta di identikit del negazionista climatico negli Stati Uniti. A influenzare il parere delle persone sulla crisi ambientale sono variabili come il livello di istruzione, il reddito e il grado di dipendenza dai combustibili fossili del tessuto economico della regione in cui vivono, laddove il negazionista medio è tendenzialmente meno istruito, meno abbiente e vive in contee nelle quali le industrie di gas e petrolio danno lavoro a migliaia di persone. Lo scetticismo rispetto al cambiamento climatico è spesso la manifestazione di una più ampia sfiducia nella scienza, come dimostra il fatto che tra i negazionisti è elevata anche la percentuale di coloro che hanno scelto di non vaccinarsi contro il Covid-19. C’è poi un altro elemento, altrettanto importante, che influenza le probabilità che una persona creda o meno al cambiamento climatico e alla scienza: l’affiliazione politica.
In media i Democratici hanno più fiducia nella scienza dei Repubblicani, hanno più a cuore i temi della transizione ecologica e sono più inclini ad affermare che debba essere affrontata con urgenza. È più probabile rintracciare negazionisti climatici tra le file dei Repubblicani, malgrado un recente studio indichi che la loro sensibilità sul tema stia crescendo.
Un ruolo cruciale nella diffusione di notizie false e teorie del complotto sul cambiamento climatico è svolto, in particolare, da quelli che i ricercatori del SEAS definiscono come veri e propri “influencer”: personaggi pubblici che diffondono e cementano la disinformazione su queste tematiche. Lo studio dell’Università del Michigan prende in considerazione soprattutto i dati di X, e identifica una serie di soggetti che negli ultimi anni hanno contribuito ad amplificare il fenomeno, rivelando che la voce più ascoltata è quella di Donald Trump. Oltre all’ex Presidente, a fare da megafono alle notizie false sul clima sono anche tre profili che hanno retwittato in modo massiccio i suoi contenuti, ossia The Daily Wire, Breitbart e Climate Depot, e commentatori politici come Ben Shapiro.
La posizione di Trump non è una novità. Per dimostrare come abbia sempre cercato di sminuire e negare la portata del cambiamento climatico si potrebbero citare centinaia di sue dichiarazioni. Una delle più eclatanti è racchiusa nel commento caustico con cui ha liquidato uno studio sulle conseguenze del riscaldamento globale pubblicato dalla Casa Bianca nel 2018, sotto la sua stessa Presidenza: “Non ci credo”.
Oggi non ha affatto smesso di prendere di mira la lotta al cambiamento climatico. Anzi, è probabile che la transizione ecologica sarà un terreno di scontro tra Donald Trump e Joe Biden in vista delle prossime elezioni. Il primo ha già dichiarato guerra alle energie rinnovabili e ai veicoli elettrici, mentre il secondo, con il suo Inflation Reduction Act (e non solo), ha dimostrato di voler traghettare gli americani verso fonti energetiche e mezzi di trasporto meno inquinanti. Sotto la Presidenza di Trump gli Stati Uniti si sono tirati fuori dall’accordo di Parigi sul clima; mentre Joe Biden, con la nomina di John Kerry come “Inviato speciale per il clima”, non solo ha sancito il rientro del Paese nel trattato, ma ha anche puntato a riaffermare la leadership statunitense nel dibattito globale su questi temi. Trump ha ribaltato più di cento misure di protezione climatica e ambientale durante i suoi quattro anni alla Casa Bianca; mentre la lotta al cambiamento climatico è stata una delle cifre dell’amministrazione Biden, ed è inevitabile che sia già finita nel mirino del suo sfidante.
Durante i suoi comizi, Trump non manca mai di affermare che, scegliendo di puntare sulle rinnovabili, il Presidente ha dichiarato guerra all’energia “americana”. Ha detto in più occasioni che le auto elettriche «non vanno lontano e costano troppo» e che le batterie necessarie per alimentarle «sono prodotte con materiali disponibili solo in Cina, mentre negli Stati Uniti è disponibile un quantitativo illimitato di carburante a buon mercato». Ha addirittura dichiarato che gli impianti eolici offshore fanno «impazzire le balene».
Così il vento del negazionismo trumpiano soffia su quelle aree del Paese che per via della loro maggiore dipendenza dai combustibili fossili vivono con più difficoltà la transizione ecologica. Studi come quelli del Pew Research Center e del SEAS dimostrano che le sue parole fanno ancora breccia su una parte significativa dell’opinione pubblica. Non se ne parla abbastanza perché ci sono in gioco temi più caldi, ma in ballo alle prossime elezioni statunitensi c’è anche l’impegno americano nella lotta ai cambiamenti climatici. L’affidabilità degli Stati Uniti nel campo della diplomazia climatica è appesa al voto del 5 novembre 2024.