Le riparazioni nella letteratura contemporanea
La letteratura nordamericana si è occupata delle slavery reparation affrontando un passato taciuto e lacunoso ancorato al presente e la pressante necessità di fare i conti con esso
“My name is Sheniqua Johnson of the St. Louis Johnsons. Your family owned my great-grand-mother and father for twelve years. You owe me money. […] Your family’s got blood on its hands”.1
Così inizia l’incubo di Marshall Johnson in “La grande rivincita”, quarto episodio dell’ultima stagione di Atlanta (2022). L’uomo, un bianco della classe media impiegato in una grande azienda e apparentemente “innocuo”, scopre una sera di discendere da padroni di schiavi, con conseguenze che vanno dal surreale al distopico, a seconda della prospettiva che si sceglie di adottare, e che implicano l’essere intimato a restituire una cifra decisamente al di sopra delle proprie possibilità.
Come la miniserie Watchmen (2019), che aveva affrontato il massacro di Tulsa del 1921, con questo episodio anche Atlanta si dedica alla questione delle slavery reparation, con i toni surreali e satirici che contraddistinguono la serie, aggiungendosi così al gruppo di prodotti artistici e culturali (alcuni più militanti di altri) che alimentano il dibattito sulla necessità o meno di riconoscere un risarcimento alla comunità afroamericana e, soprattutto, sulla tipologia di tale risarcimento a fronte dei secoli di schiavitù.
La questione, com’è noto, si è accesa con rinnovata intensità durante la pandemia di COVID-19 e le concomitanti proteste contro gli abusi in divisa negli Stati Uniti: in entrambi i casi infatti, le minoranze nere sono le più colpite, a ulteriore testimonianza del fatto che l’eredità della schiavitù continua a misurarsi in termini di disuguaglianza sociale ed economica e che qualsiasi genere di atto di “risarcimento” deve basarsi su una sincera volontà di fare i conti con la propria storia, così come sosteneva James Baldwin già negli anni sessanta (ne è un esempio il suo intervento nel dibattito “Has the American Dream been Achieved at the Expense of the American Negro?” che lo vede contrapposto al giornalista conservatore William F. Buckley Jr.). Sulla scia di Baldwin può essere letto anche il recente articolo di Ta-Nehisi Coates, “The Case for Reparations” (2014) che ripercorre la questione analizzando eventi e pratiche discriminatorie, anche attraverso testimonianze dirette, da Nord a Sud, ricostruendo un continuum di razzismo sistemico pressoché ininterrotto dalla schiavitù a oggi. L’articolo di Coates è stato celebrato da più parti e ha contribuito al dibattito sulla questione razziale negli Stati Uniti, ma non stato l’unico in questo senso.
Qualche anno dopo, nel 2019, il New York Times ha ospitato “The 1619 Project”, progetto di giornalismo collettivo e revisionismo storico curato da Nikole Hannah-Jones che ha l’obiettivo di presentare una rilettura critica della storia degli Stati Uniti e della schiavitù. Il progetto si è arricchito di una raccolta di saggi e poesie, pubblicata nel 2021 sotto il titolo di The 1619 Project: A New Origin Story che vede la partecipazione di alcuni degli autori più importanti della letteratura afroamericana contemporanea e che, a più riprese nel corso della propria carriera, si sono dedicati a dissezionare le ingiustizie della società statunitense e il peso della “vita postuma della schiavitù nera” (the afterlife of slavery, per usare una terminologia coniata dalla studiosa Saidiya Hartman in Perdi la madre. Un viaggio lungo la rotta atlantica degli schiavi). Tra di loro, in stretto dialogo con il movimento Black Lives Matter, autrici come Claudia Rankine, Natasha Trethewey o Jesmyn Ward raccontano un’America in cui l’unica forma di “risarcimento” possibile per quanto subito durante la schiavitù deve includere la capacità di fare veramente i conti con il passato e, allo stesso tempo, con il presente, leggendo l’uno attraverso l’altro e viceversa.
“To be a poor man is hard, but to be a poor race in a land of dollars is the very bottom of hardships”2, scriveva nel 1903 lo studioso e attivista W. E. B. Du Bois in quello che è forse a tutt’oggi il suo testo più importante, “Le anime del popolo nero”, riunendo discriminazione razziale e di classe con straordinaria attualità, così come fanno le autrici in questione attraverso le proprie opere, dalla narrativa alla poesia al memoir. In “Citizen. An American Lyric” (2014), Claudia Rankine combina prosa poetica con immagini e altre forme artistiche per comporre il drammatico mosaico della violenza razziale negli Stati Uniti, tra fatti di cronaca ed esperienze personali. In “Native Guard” (2006), raccolta di poesie dedicata alla memoria della madre, Natasha Trethewey si confronta direttamente con l’eredità della Guerra Civile, ponendosi come custode della memoria collettiva così come di quella personale di fronte alle ingiustizie del passato e del presente. Allo stesso modo, in “Beyond Katrina. A Meditation on the Mississippi Gulf Coast” (2010), Trethewey si fa portavoce della propria terra e della propria storia, testimoniando di come il peso della schiavitù e della segregazione rappresentino un colpo ulteriore ogniqualvolta la comunità nera si trova a fronteggiare traumi collettivi non necessariamente originati dal razzismo ma, come in questo caso, da catastrofi naturali.
Passato e presente si intrecciano ancora una volta anche nella prosa di Jesmyn Ward la cui intera produzione sembra fare riferimento all’impossibilità di raggiungere alcun tipo di “indennizzo” se non attraverso una vera e propria rivoluzione della struttura stessa della società statunitense, che garantisca uguali opportunità a ognuno, senza distinzioni di colore o classe. Ne sono esempi il memoir “Sotto la falce” (2013), che ripercorre le tragiche morti di quattro giovani ragazzi neri, tra cui il fratello dell’autrice, mostrando come queste siano il risultato della deliberata assenza di possibilità altre in contesti come quello della Costa del Golfo in cui è cresciuta, o i romanzi “Salvare le ossa” (2011), sull’uragano Katrina, e “Canta, spirito, canta” (2017) in cui il tristemente noto penitenziario del Mississippi, Parchman Farm, incombe sulla vita dei personaggi a rappresentare l’eterno ritorno di un passato da cui non sembra possibile trovare sollievo.
L’opera recente che forse affronta più esplicitamente il tema delle slavery reparation è “I canti d’amore” di Wood Place (2022), romanzo d’esordio della poetessa Honorée Fanonne Jeffers, saga familiare che attraversa quattro secoli di storia nordamericana e al contempo romanzo di formazione che vede come protagonista la più giovane discendente della famiglia, Ailey Pearl Garfield, cresciuta al Nord ma le cui radici sono nel Sud della Georgia, a Chicasetta, ex-piantagione nota come Wood Place e dove la maggior parte della sua famiglia risiede ancora, in una terra che ha ereditato perché imparentata con il padrone bianco.
Il romanzo sovrappone più piani temporali: nella storia di Chicasetta, tra rapporti affettivi e violenze, bianchi e neri si mescolano e finiscono per condividere gli stessi ricordi, che pure sembrano tanto diversi a seconda delle voci che li hanno tramandati e le orecchie che li hanno ascoltati, mentre la storia di Ailey parla non solo dell’educazione sentimentale di una giovane donna, ma anche dello sforzo compiuto per affermarsi come giovane studiosa in un contesto accademico che, a parte poche eccezioni sapientemente studiate, rimane precluso alle persone non-bianche. Con “I canti d’amore” di Wood Place Jeffers afferma di aver scritto “un’opera di narrativa storica” che si pone delle domande legate alla questione delle slavery reparation e si inserisce in un discorso aperto da Du Bois (che il romanzo omaggia esplicitamente) e ampliato da Baldwin.
Come Baldwin, ricostruendo, seppur in termini di finzione letteraria, un passato taciuto e lacunoso e ancorandolo al presente, Jeffers rivendica la pressante necessità di fare i conti con il fatto che “I am one of the people who built the country–until this moment there is scarcely any hope for the American dream, because the people who are denied participation in it, by their very presence, will wreck it. And if that happens it is a very grave moment for the West”3 (Baldwin, 1965).
Mi chiamo Sheniqua Johnson dei Johnsons di St. Louis. La vostra famiglia ha posseduto la mia bisnonna e mio padre per dodici anni. Mi dovete dei soldi. La vostra famiglia ha le mani sporche di sangue...
Essere un uomo povero è difficile, ma essere una razza povera in un paese di dollari è il punto più basso delle difficoltà.
Sono una delle persone che hanno costruito il paese: fino a questo momento non c'è quasi nessuna speranza per il sogno americano, perché le persone a cui viene negata la partecipazione, con la loro stessa presenza, lo distruggeranno. E se questo accadrà, sarà un momento molto grave per l'Occidente".