Il silenzio del Grande Comunicatore
Ronald Reagan, l’AIDS e uno spettro che persiste ancora oggi
Il 2 ottobre 1985, alle 9 del mattino, il divo del cinema anni ‘50 e ‘60 Rock Hudson muore nel sonno in un ospedale americano di Parigi all’età di soli 59 anni. La causa della morte del celebre attore statunitense è quello che nessuno all’epoca poteva aspettarsi da un divo del cinema della sua portata e che portava un certo modello di mascolinità sullo schermo: complicazioni dovute a infezioni da HIV, di cui aveva ricevuto la diagnosi nel 1984. Hudson diventa quindi la prima celebrità morta per AIDS nella storia dell’epidemia. Rock Hudson era amico di lunga data dei coniugi Ronald e Nancy Reagan che, in quel preciso momento, occupavano la Casa Bianca come Presidente e First Lady.
Una delle più grandi critiche rivolte a Reagan per quanto riguarda la sua presidenza è stata la risposta inadeguata nel contrastare un’epidemia arrivata a uccidere migliaia di americani. Nonostante la grande mobilitazione delle associazioni queer e della scienza, Reagan non nominò l’AIDS pubblicamente fino al 1985, anno della morte dell’amico Rock. Ormai l’epidemia viaggiava già molto veloce e, nonostante l’improvviso risveglio del Presidente, stava battendo 1 a 0 la ricerca.
La parte più tragica di questo silenzio è segnata da come l’inquilino della Casa Bianca faceva il filo a quel conservatorismo evangelico estremista - che trovava espressione nel gruppo di lobby Moral Majority, di cui Reagan era alleato - che vedeva nelle persone queer una piaga e nell’omosessualità una malattia mentale - nonostante l’American Psychiatric Association l’avesse rimossa dalla lista del Diagnostic and Statistical Manual (DSM-II) nel 1973 - e l’AIDS una punizione inflitta agli omosessuali che “se la sono cercata”: come dimenticare Pat Buchanan, un araldo dei paleoconservatori americani e consulente speciale alla comunicazione per Reagan, che scrisse nel 1983: «Poveri omosessuali. Hanno dichiarato guerra alla natura e ora la natura sta chiedendo indietro una bruttissima compensazione».
Le politiche di Reagan poi, non sono state così efficaci e si dovrà aspettare un altro Presidente Repubblicano, George Bush Sr. per avere qualcosa di concreto.
Le ceneri di Reagan in questo senso sono un bruttissimo ricordo per la scienza medica e la comunità queer americana, che lo ricordano come il Presidente del silenzio, in totale contrasto con quel mito del “Great Communicator” che si era cucito addosso fin dall’inizio.
“Silence equals death”
L’AIDS nel 1985 era una patologia ben nota da quattro anni almeno agli scienziati americani e a organi federali come i Centres of Disease and Control (CDC): nel 1981 erano stati individuati stranissimi cluster di polmonite causata da un fungo (Pneumocystis jirovecii) in uomini omosessuali in città come Los Angeles e, molti di questi pazienti presentavano presenze tumorali sulla pelle note come Sarcoma di Kaposi.
Ci si mise molto poco a iniziare a parlare di “piaga gay”, “cancro gay”, o GRID (gay-related immune deficiency), aumentando lo stigma nei confronti della popolazione queer americana, con outing di persone omosessuali che contraevano la malattia e venivano esposti a discriminazione e marginalizzazione.
Il mandato di Ronald Reagan come quarantesimo Presidente degli Stati Uniti d’America iniziò proprio in quell’anno, il 20 gennaio 1981. Non accennò minimamente alla nube nera che stava investendo una parte della popolazione del Paese che andava a rappresentare.
Nel 1982 i CDC descrivono per la prima volta la malattia, coniando per la prima volta l’acronimo AIDS, che sta per Acquired Immune Deficiency Syndrome. Lo stesso anno Anthony Fauci, allora ricercatore al NIAID, pubblicava un paper sul The Annals of Internal Medicine in cui richiamava l’attenzione su questa nuova malattia e ritenendo che essa non avrebbe interessato solo un segmento di popolazione, come ho ricordato nel ritratto del celebre medico statunitense comparso su First Aid. Ancora dalla Casa Bianca ci fu un assordante silenzio.
Il New York Times parlò per la prima volta di AIDS nel 1983, in cui si riportava che il Dottor Edward N. Brandt Jr., con il ruolo di Assistant Secretary of Health and Human Services, affermava che il Governo si stava impegnando con soldi alla ricerca e monitoraggio per contrastare la malattia. Tuttavia, dal Presidente Reagan non si aveva ancora alcuna menzione: anzi, nel 1982 il suo Press Secretary, Larry Speakes rispose a una domanda del giornalista conservatore Lester Kinsolving su cosa aveva da dire il Presidente sull’AIDS con un “non ho risposte”. È possibile ascoltare questo dialogo in un corto uscito nel 2015 intitolato “When AIDS was funny”.
Anche ai CDC la situazione stava diventando frustrante: non venivano dati i fondi necessari per la ricerca o ne venivano dati troppo pochi. Addirittura Reagan tagliò il budget dei CDC e dei National Institutes of Health (NIH) nel suo programma di ridimensionamento federale proprio in quegli anni.
Per rispondere a questo silenzio, per anni gli unici che hanno fatto qualcosa di concreto sono state le amministrazioni locali. Ad esempio a San Francisco, dove vennerochiuse le saune e i sex club privati per evitare la proliferazione della malattia. Nel frattempo, le associazioni queer si impegnavano per fare prevenzione e supportare i malati, oltre che ad alzare la voce e chiedere più attenzione.
Con l’inizio del 1985 i CDC elaborarono un piano nazionale di prevenzione per l’AIDS, che fu rigettato da Washington in poco tempo1. La situazione era ormai insostenibile.
Finalmente, Reagan menzionò l’AIDS come “top priority” nel 1985, rispondendo a una domanda di un giornalista. Il 2 ottobre dello stesso anno, mentre l’amico Rock Hudson moriva a Parigi, il Congresso allocava 190 milioni di dollari per la ricerca sull’AIDS. Solo nel 1987 l’impegno di Reagan diventerà più costante, anche se comunque non sufficiente. I morti di AIDS fino al 1985 negli Stati Uniti si contava sui 6000. Gli infetti circa 12.000.
Tutte le colpe di Reagan
Oggi Reagan è il mito del moderno Partito Repubblicano: sebbene il GOP di oggi non ne ricalchi particolarmente bene la personalità a 360 gradi, sul silenzio sull’AIDS e quella taciuta paura di esprimersi su questioni legate la vita sessuale degli americani e sulla comunità queer è perfettamente in linea con quello che vediamo oggi.
Non solo negli anni ‘80 si doveva combattere una battaglia medico-scientifica contro un virus, ma si doveva fronteggiare l’omofobia diffusa, la discriminazione, lo stigma e il bigottismo che ancora oggi riecheggiano in certe uscite di esponenti del GOP, camuffate da culture wars contro le “devianze” che starebbero rovinando l’America, che deve tornare a essere grande, per citare slogan rubati a Reagan e diventati poi famosi.
Non più tardi della scorsa settimana è diventato nuovo Speaker della Camera Mike Johnson, un Repubblicano che ha passato molto tempo a dare dei peccatori alle persone queer, a sostenere la connessione tra omosessualità e pedofilia e che auspicava a un ritorno del carcere per il sesso omosessuale perché, nella sua visione, il diritto alla sodomia non è nella Costituzione Americana.
Queste sono le ceneri di Reagan nella lotta all’AIDS: non tanto per la risposta scientifica, che ora ha trovato terreno nella ricerca estensiva e nell’introduzione di farmaci antiretrovirali in grado di dare speranza, ma nella considerazione morale della minoranza come pericolosa, da boicottare e ostacolare perché deviante, oppure, nel non prendere atto che se un problema non riguarda da vicino chi siede al Governo o chi milita nel partito, allora non si debba trovare una soluzione.
Quelle migliaia di morti sono una macchia sulla carriera politica di Ronald Reagan, qualsiasi tentativo di revisionismo si faccia; e a oggi, ancora moltissimi americani, non solo queer, hanno contratto l’AIDS e necessitano cure, prevenzione e assistenza.
Francis DP. Deadly AIDS policy failure by the highest levels of the US government: a personal look back 30 years later for lessons to respond better to future epidemics. J Public Health Policy. 2012;33(3):290-300. doi:10.1057/jphp.2012.14