Più soli nella tempesta
La stagione degli uragani è iniziata e la FEMA è più debole che mai. L’amministrazione Trump valuta di lasciare agli Stati la gestione delle emergenze

La stagione degli uragani è iniziata ma quest’anno i cittadini statunitensi, dalle coste dell’Atlantico a quelle del Pacifico, sono un po’ più soli. Non è un periodo semplice per la Federal Emergency Management Agency (FEMA), l’agenzia del Department of Homeland Security (DHS) che coordina la risposta del governo federale a disastri naturali, emergenze e altri incidenti su larga scala. L’ente è finito nel mirino dell’amministrazione Trump, che fino a poche settimane fa stava seriamente valutando di smantellarlo e affidare la piena responsabilità della gestione delle crisi agli Stati federati. Le alluvioni che si sono abbattute sul Texas a inizio luglio potrebbero aver cambiato le carte in tavola: sembra che i numeri di morti, dispersi e feriti e gli ingenti danni riportati sul territorio stiano spingendo il governo a fare marcia indietro. Pare che lo smantellamento della FEMA non faccia più parte dell’agenda della Casa Bianca, ora invece intenzionata a ridimensionarla, ma la volontà di enfatizzare il ruolo dei governi statali nella risposta ai disastri e gli effetti delle dichiarazioni e dei tagli degli scorsi mesi rimangono.
Dal 20 gennaio nei corridoi dell’agenzia si respira un clima di incertezza. Le forti pressioni del Department of Government Efficiency (DOGE) in merito al licenziamento di parte della forza lavoro federale hanno spinto molti funzionari di alto livello ad abbandonare i loro incarichi. La situazione si è aggravata, a inizio maggio, con il licenziamento del direttore ad interim, Cameron Hamilton, che proprio il giorno prima di essere rimosso dall’incarico aveva evidenziato davanti ai membri del Congresso l’importanza dell’ente per le comunità locali nei momenti di crisi. Tra dimissioni volontarie e tagli, dall’inizio del secondo mandato di Trump la FEMA ha perso almeno un quarto dei suoi impiegati a tempo pieno, compreso un quinto degli ufficiali di coordinamento che si occupano direttamente della gestione dei disastri su larga scala.
Nel corso della sua storia recente l’agenzia si è quasi trovata a corto di personale solo nel 2017, quando ha dovuto fronteggiare in rapida successione gli uragani Harvey, Irma e Maria e contemporaneamente il dilagare degli incendi in California. In quello scenario da incubo poteva contare su 6.588 dipendenti preparati e pronti a intervenire, mentre a fine maggio di quest’anno ne contava 1.952. Viste le premesse, non è chiaro se riuscirà ad affrontare l’attuale stagione degli uragani, che secondo i pronostici potrebbe far segnare un nuovo record sia per numero di eventi estremi che per entità dei danni.
Per essere classificate come uragani le tempeste devono registrare venti superiori a 119 chilometri orari, soglia a partire dalla quale rientrano nella scala Saffir-Simpson che li suddivide in cinque diverse categorie, in base alla loro potenza. Iniziano però ad avere un nome, anche per aiutare la popolazione a prepararsi ad eventuali emergenze, quando i loro venti raggiungono i 63 chilometri orari. Gli esperti della Colorado State University prevedono che quest’anno solo sulla costa atlantica verranno battezzate 17 tempeste, 9 delle quali dovrebbero ottenere lo status di uragano. Tra queste ultime, quattro potrebbero potenzialmente raggiungere e superare la categoria 3 e riportare quindi venti superiori ai 178 chilometri orari. Non sono ottimistiche neppure le previsioni della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), che preannunciano tra le 13 e le 19 tempeste. Per rendere l’idea: in media durante la stagione degli uragani atlantici, che per convenzione va dal 1° giugno al 30 novembre, si verificano 14 tempeste e 7 uragani.
La situazione è leggermente migliore sul versante del Pacifico – dove la stagione va dal 15 maggio al 30 novembre – che secondo il NOAA ha solo il 20 per cento di probabilità di avere cicloni tropicali sopra la norma. Sulla West Coast, però, pende anche la spada di Damocle degli incendi, il cui picco è previsto tra luglio e novembre.
Con una FEMA sotto organico sempre più cittadini potrebbero perdere servizi e forme di assistenza cruciali, sia prima che dopo l’arrivo di eventi estremi. Nei giorni che precedono l’arrivo di una tempesta, gli ufficiali dell’agenzia e i meteorologi lavorano a stretto contatto per monitorarne da vicino il percorso e per decidere se inviare o meno membri dello staff e provviste nelle aree considerate più a rischio. Una volta avvenuto il disastro, la FEMA è l’ente che coordina a livello federale la risposta di tutte le altre agenzie coinvolte nella gestione delle emergenze, come l’Army Corps of Engineers e il Forest Service, e aiuta nella distribuzione di provviste alle famiglie colpite. Ma soprattutto, è l’agenzia che offre supporto finanziario a individui e governi locali per riparare i danni subiti e prevenirne di nuovi in caso di emergenze future. Fino al ritorno di Trump alla Casa Bianca, la FEMA forniva anche un servizio di assistenza “porta a porta” per informare i sopravvissuti ai disastri naturali sui programmi e le misure di aiuto a loro disposizione, cancellato dalla nuova amministrazione perché ritenuto uno spreco inutile.
Nel corso di una riunione con il personale a inizio giugno, il nuovo capo dell’agenzia David Richardson ha affermato di non essere a conoscenza del fatto che negli Stati Uniti esista una stagione degli uragani. La notizia è stata riportata da diversi quotidiani e ha spinto il DHS a diffondere un comunicato per chiarire che le affermazioni di Richardson non erano altro che uno scherzo. Nel corso della stessa riunione, il nuovo vertice dell’agenzia avrebbe chiesto ai dipendenti di affrontare la stagione così come hanno fatto l’anno precedente, ma è evidente che con uno staff ridotto sarà molto difficile.
L’obiettivo del governo federale è far sì che la responsabilità della gestione delle emergenze ricada in misura sempre maggiore sui governi statali, un’ipotesi che apre prospettive non proprio incoraggianti. Ci sono Stati che dispongono di budget più robusti e di una maggiore esperienza con i disastri ambientali e quindi, se venisse del tutto a mancare il supporto della FEMA, potrebbero apparire meglio equipaggiati. Ce ne sono però molti altri che finora non hanno mai dovuto fronteggiare fenomeni meteorologici estremi, o che non hanno abbastanza fondi da destinare alla gestione delle crisi, e che a causa dei cambiamenti climatici potrebbero iniziare ad essere intaccati da tempeste e uragani sempre più violenti. Ormai nessun luogo è davvero al sicuro.
A peggiorare il quadro è il fatto che a partire da quest’anno, sempre su spinta dell’amministrazione Trump, il NOAA smetterà di monitorare i disastri climatici capaci di provocare danni per almeno un miliardo di dollari, mandando in pensione un database che aggiornava annualmente dal 1980. In linea con la nuova linea oscurantista del governo, i danni miliardari provocati da fenomeni come tempeste, uragani e incendi non verranno più stimati né conteggiati. D’altra parte, anche il NOAA negli ultimi mesi ha perso circa un quinto del suo staff, tra defezioni volontarie e licenziamenti, inclusi centinaia di dipendenti del National Weather Service. La presenza di un minor numero di meteorologi e i tagli ai finanziamenti destinati all’agenzia potrebbero ridurre drasticamente la sua capacità di monitorare e prevenire eventi climatici estremi.
Il punto della questione è molto semplice: ignorare i problemi è più facile, se non li si quantifica. Quanto accaduto in Texas a inizio luglio però dimostra che non sempre è possibile voltarsi dall’altra parte. I fenomeni meteorologici estremi continueranno a verificarsi, indipendentemente dai tentativi di minimizzarli o negarne la connessione con la crisi climatica, e le loro conseguenze saranno concrete.