#5 Brainstorm – Il dibattito Trump-Harris, prima parte
Tutto si può dire tranne che sia stato un confronto noioso. Ecco i punti di vista di Matteo Muzio, Giacomo Stiffan e Laura Gaspari
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson – Lettere sull’America che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
È stata una serata scoppiettante, questo è poco ma sicuro. Nella chat della redazione sono esplosi i commenti e ognuno analizzava l’evento politico dell’anno attraverso la lente della propria expertise. Un insieme di osservazioni preziose: vogliamo restituirle qui su Brainstorm, che per l'occasione uscirà in più parti.
Ecco la prima, con le opinioni di Matteo Muzio, Giacomo Stiffan e Laura Gaspari.
«Trump ha fatto esattamente la parte del weird»
di Laura Gaspari
Da dove iniziare per commentare questo dibattito? C’è molto da dire, dal modo in cui Kamala Harris si è aggiudicata la serata, andando “sotto pelle” – come dicono gli anglosassoni – a Trump, facendolo arrabbiare talmente tanto da fargli perdere il focus anche quando le domande erano su temi a lui favorevoli, come l’immigrazione e l’economia. Nulla a che vedere con il dibattito precedente, che ci aveva fatto mettere le mani nei capelli. Proprio nei momenti di completa rabbia e frustrazione, Donald Trump è riuscito a tirare fuori le peggiori fake news, che ovviamente hanno scatenato l’ilarità generale, meme compresi.
Partiamo da quelli che reputo i due momenti più assurdi dello sproloquio di Trump: quando i giornalisti Lindsey Davis e David Muir hanno chiesto ai due candidati la loro posizione sull’aborto e i diritti riproduttivi, Donald Trump è parso alle strette, mettendo a nudo l’incoerenza delle sue posizioni (ne abbiamo parlato nello scorso Brainstorm): non solo ha praticamente dichiarato in diretta nazionale che non ha minimamente discusso la posizione ufficiale con il suo running mate, J.D. Vance, ma ha sostenuto che i Democratici vogliano l’aborto fino ai nove mesi di gravidanza e addirittura arrogarsi il diritto di «giustiziare» (to execute) i bambini dopo la nascita. Affermazione subito smentita dalla Davis, che ha ricordato a Trump che in nessuno Stato ciò è legale.
Subito dopo, parlando di immigrazione, Harris ha provocato Trump sulla quantità di gente ai suoi comizi. Lì Trump, visibilmente arrabbiato, ha tirato fuori una fake news riguardante la cittadina di Springfield in Ohio, secondo cui gli immigrati haitiani rubano cani, gatti e animali domestici dei residenti per mangiarseli. Una fake messa in giro da J.D. Vance, che è Senatore dello Stato, sulla base di un post su Facebook di un’amica della figlia della vicina di casa (che al mercato mio padre comprò). Inutile dire che la quantità di meme su internet è infinita e anche noi in redazione non abbiamo perso tempo a togliere la corona di mangiagatti al Vicedirettore Stiffan, di origine vicentina, e darla ad honorem a Springfield, Ohio.
Ultima cosa, non meno importante, il tema della sanità. Sapete ormai che questo è tra i temi centrali della campagna elettorale. Donald Trump si è sempre opposto a Obamacare e da circa nove anni rincalza che ha un piano alternativo e infallibile, come gli ha ricordato anche la Davis durante il dibattito, non facendo di fatto alcunché. Proprio quando la Davis l’ha incalzato sul fantomatico piano, se esista o no, Donald Trump ha risposto con: «I have concepts of a plan» (ho dei concetti di un piano), che è una di quelle frasi che ti aspetti da un tredicenne, invece che da un ex Presidente degli Stati Uniti. Il piano c’è in realtà, e si chiama Project 2025, che per la sanità ha in mente delle politiche ben precise (e ne abbiamo già parlato qui su Jefferson).
Meme o tragicomicità che siano, Trump ha fatto esattamente la parte del weird, lo strambo o, per citare Walz che cita i Simpson, del vecchio che urla letteralmente alle nuvole, mettendosi allo scoperto come quel candidato che è solo capace di aizzare le folle, non interessandosi minimamente delle esigenze degli elettori americani.
«Anche a microfono spento Harris comunica in maniera eccellente, e questo è quello che conta per un politico»
di Giacomo Stiffan
Per questioni di spazio, a malincuore, lascio ai colleghi l’analisi politica: c’è troppo materiale per non parlare di comunicazione.
Harris sa che non esiste una seconda occasione per fare una buona prima impressione: ha subito preso possesso del palco, percorrendolo tutto fino a dare la mano a un riluttante Trump, che stava già prendendo posizione nella sua metà. Un’invasione di campo fisica, con la quale Harris – che di certo aveva un piano B se Trump avesse rifiutato la stretta – ha chiarito subito di che pasta è fatta.
Ciò non significa che non fosse tesa. Aveva la bocca talmente impastata da “cliccare” mentre parlava, poi si è sciolta quando ha visto che Trump abboccava alle sue esche. Per esempio, quando ha detto che la gente va via prima dai suoi comizi, cosa che lo ha fatto sbroccare.
Trump, di converso, è partito all’inizio con un tono basso e lento, come contro Biden, ma la calma è durata poco.
Per quanto riguarda il linguaggio non verbale, Trump indossa due maschere, che alterna in base al momento: quella che in redazione abbiamo definito la mug shot face (qui sopra, simile a quella nella sua foto segnaletica), che usa soprattutto nella prima parte del confronto; poi quella che Politico definisce la joker face, un largo sorriso palesemente finto, dato che gli occhi non partecipano a un’espressione che vorrebbe trasmettere sarcasmo. Considerato che Trump ha di suo una “faccia con i sottotitoli” che lascia trasparire il suo stato d’animo, il suo team gli avrà imposto questa scelta limitata.
In realtà, nei momenti in cui non riesce a inghiottire qualcosa detto dalla Harris, mostra i denti inferiori in segno di evidente rabbia, o gli scappa una quasi bocca “a culo di gallina” di prodiana memoria.
Di converso, Harris sfodera un repertorio di sorrisi, sguardi increduli, occhi strabuzzati e gestualità degno di un attore: è arrivata molto più preparata di Trump sul non verbale, che sfrutta in maniera efficace e consapevole. Il risultato è che anche a microfono spento Harris comunica in maniera eccellente, e questo è quello che conta per un politico.
Harris trasmette un genuino senso di sdegno verso Trump in vari momenti ma uno spicca, quando parla di aborto. Si nota una microespressione (movimento facciale brevissimo e involontario): un arricciamento del naso appena accennato tipico del disgusto, che poi ripete in maniera simile quando parla dei commenti antisemiti dei sostenitori di Trump.
Parlando di microespressioni, Trump ne sfodera una da manuale (qui sopra) mentre parla del manifestante morto durante l'assalto al Campidoglio. Si tratta di un fotogramma, ma è inequivocabile. Trump prova una rabbia sincera e forte: i miliziani del 6 gennaio sono figli suoi.
A differenza di Harris, Trump tiene sempre lo sguardo dritto davanti a sé. Parliamone: una persona che per un’ora e mezza non ha mai il coraggio di guardare il suo avversario non trasmette l’immagine di un leader, quanto piuttosto una malcelata insicurezza (per non dire infantilità). Harris, di converso, quando parla e sempre rivolta verso di lui, comunicando grande fiducia in sé stessa e nessuna soggezione verso il tycoon.
In definitiva ha vinto Harris, su questo non ci piove, e la marea di meme che perculano Trump per le stupidaggini dette in diretta mondiale sono un’ulteriore conferma, vedasi qui sopra. Non a caso, appena finito il confronto, Trump ha abbandonato gli appunti sul palco ed è letteralmente fuggito, pur di non stringere di nuovo la mano a Harris.
Trump ha poi fatto sapere di non voler fare un ulteriore confronto. Scelta insolita per chi è in svantaggio nei sondaggi, che la dice lunga sul suo orgoglio ferito e sul timore di un’altra debacle.
«Trump, anche se sempre più estremo e senile, non può essere preso sottogamba»
di Matteo Muzio
I minuti dopo il dibattito hanno fatto tirare un respiro di sollievo pieno alla compagine Dem, che si era compattata dietro di lei praticamente a scatola chiusa, accettando unanimemente la sua candidatura in sostituzione del malandato Joe Biden. Mai come prima d’ora Trump era stato messo in un angolo sin dal primo istante, tanto che per la prima volta da anni rischiano di essere in vantaggio anche i candidati di seggi in bilico, con l’eccezione di quelli eletti in seggi ipertrumpiani come Mary Peltola in Alaska.
Ad ogni modo, ora Kamala Harris deve entrare nella terza fase della campagna, dopo aver mostrato come Trump può essere sconfitto in un confronto diretto e come si possa creare entusiasmo: deve dare proposte concrete su cui il pubblico americano possa ritrovarsi. L’incontro avvenuto la settimana del dibattito con alcuni consulenti del governo laburista britannico può dare l’indicazione sul futuro: punterà su diversi temi “pane e salame”, come il sostegno al reddito della classe media che include prestiti per l’acquisto di case, e deve provare a rovesciare la narrazione sul fenomeno migratorio.
In sintesi: no ai respingimenti inumani dell’epoca di Trump ma lotta totale alle organizzazioni che trafficano in esseri umani da un lato e dall’altro del confine. Due temi forti che possono compensare l’estrema vaghezza di altri punti del suo programma, che finora è solo la piattaforma Dem votata quando il candidato era ancora Biden, e che su certi aspetti era sbilanciata a sinistra. Ora Harris, anche per questo, ha carta bianca di fronte a un elettorato che però ora si aspetta concretezza, perché l’esperienza racconta che Trump, anche se sempre più estremo e senile, non può essere preso sottogamba a causa dell’ascendente granitico che continua ad avere su circa il 40 per cento dell’elettorato, ormai totalmente alienato rispetto ai fatti reali dell’economia ma non solo. Ad ogni modo, è perfettamente chiaro che se un moderato deciderà comunque di dare il suo voto a Donald Trump lo farà in totale malafede e disonestà intellettuale, dopo quello che abbiamo visto la sera del 10 settembre 2024.