#4 Brainstorm – Le giravolte di Trump sull’aborto
I cambi di posizionamento di Trump sul diritto all’aborto sono rischiosi. Ne parliamo con Vittoria Costanza Loffi, Giacomo Stiffan, Laura Gaspari e Francesco Danieli
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson – Lettere sull’America che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
Il diritto all’aborto è un – se non il – tema cruciale di questa campagna elettorale. Da una parte Kamala Harris, convinta pro-choice. Dall’altra Donald Trump, la cui posizione in merito è cambiata svariate volte.
Durante il dibattito tra i candidati (ne parleremo a strettissimo giro qui su Brainstorm e nelle altre rubriche di Jefferson), Trump è stato incalzato sull’argomento, mettendo il piede in fallo svariate volte. Di seguito le opinioni sulla questione di Giacomo Stiffan, Vittoria Costanza Loffi, Laura Gaspari e Francesco Danieli.
«Trump cambia opinione sull'aborto più spesso di quanto cambi la cravatta»
di Giacomo Stiffan
Cambiare idea su un argomento di solito è sintomo di intelligenza. Il mondo cambia di continuo e i politici devono essere i primi a interpretare queste variazioni. Tuttavia, il troppo stroppia: Trump cambia opinione sull’aborto più spesso di quanto cambi la cravatta. Anche la Harris ha cambiato idea su vari argomenti, come sul fracking, ma c’è una bella differenza.
Trump è un perfetto esempio di quei politici che scelgono cosa dire in base ai sondaggi del giorno. Per questo, per lui, non c’è tema più spinoso dell’aborto. Da una parte, la maggioranza degli americani è favorevole a una forma di tutela federale di questo diritto; dall’altra, Trump ha vinto il suo primo mandato grazie al voto evangelico, ferreo nella sua opposizione a qualsiasi forma di tutela del diritto all’aborto. Quindi, che Trump vada da una parte o dall’altra si fa comunque male.
Detto questo, le parole di un politico e ancora di più le parole di Trump vanno pesate per quello che sono: campagna elettorale. I politici si misurano su cosa fanno, non su cosa dicono: la mano che ha firmato le nomine dei tre giudici supremi, che hanno garantito la supermaggioranza repubblicana, che ha poi fatto a pezzi il diritto federale all’aborto, è quella di Trump. Su questo non si discute.
C’è poi un altro aspetto. Mai come in questa campagna è fondamentale saper mobilitare i propri, più che convincere gli altri. Tuttavia, questo è meno vero per Harris e molto più vero per Trump. Harris può permettersi di allargare a destra, verso i repubblicani moderati: l’endorsement ricevuto dai Cheney padre e figlia la dice lunga su questo. Trump, invece, ha creato una frattura insanabile con i moderati, perdendo un pezzo del suo stesso partito, pertanto non gli rimane che andare sempre più a destra. La mia opinione di pancia e del tutto non oggettiva è che Trump senza gli evangelici non va da nessuna parte: prima di tutto deve garantirsi i loro voti e credo che da qui in avanti cercherà di farlo con ogni mezzo, dopo i mal di pancia generati proprio sul tema dell'aborto.
«Sull’aborto Trump avrà campo libero finché i Dem non abbracceranno la visione della giudice Ketanji Brown Jackson»
di Vittoria Costanza Loffi
Dal suo ingresso in politica, Trump non ha mai avuto una chiara posizione sul diritto all’aborto: tuttavia, non si può dire lo stesso degli esponenti del mondo repubblicano attorno a lui.
Il sodalizio lungo anni con organizzazioni come la Federalist Society e l’aver elevato a proprio faro le teorie originaliste di Robert Bork, hanno sicuramente reso questione di minuti il rovesciamento di Roe v. Wade nel 2022, ma l’inevitabile diniego di un diritto all’aborto costituzionalmente garantito era già tra le righe di Roe che, nonostante la lungimiranza dei giudici della Corte Burger, non ha saputo anticipare le contromosse repubblicane – anche oggi mascherate dai cambi d’umore di Trump.
Per dimostrare che l’aborto è in Costituzione si dovrà aspettare l’approdo in Corte di Ketanji Brown Jackson, e del suo progressismo originalista. È proprio la storia dei diritti riproduttivi della popolazione afroamericana durante la schiavitù e fino ai giorni nostri a raccontarci che il posto del diritto all’aborto è tra il XIII e il XIV Emendamento.
Trump e i repubblicani lo sanno, i democratici apparentemente molto meno. Questi ultimi, infatti, rilanciando su una legge federale per garantire il diritto all’aborto perdono l’occasione di sfruttare una linea di dibattito aggressiva, progressista e intersezionale, mentre sono proprio i repubblicani a ricorrere al XIV Emendamento per raggiungere un obiettivo mai abbandonato dagli anni Ottanta: quello della personalità giuridica del feto, un tempo (sotto Reagan) sognata nella forma di un vero e proprio Emendamento, oggi “originariamente” fondata in ciò che già è scritto. Risultato? Sull’aborto Trump avrà campo libero finché i Dem non abbracceranno la visione della giudice Ketanji Brown Jackson. Mentre l’opinione pubblica si concentra sui cambi di opinione di Trump, infatti, la piattaforma lavora, guidata dai cosiddetti judicial conservatives – e più acutamente dei Dem.
«Il GOP perde quando si tratta di diritti riproduttivi»
di Laura Gaspari
Donald Trump non è famoso per avere solidità e coerenza delle sue idee. Tant’è che la virata sull’aborto di fine agosto, dove ha dichiarato che il limite a sei settimane per abortire della Florida è troppo stretto, non ci deve stupire più di tanto. Specie per quello accaduto dopo.
Partiamo da una premessa: l’abbiamo ripetuto molte volte, si è capito soprattutto con le midterm del 2022, che il GOP perde quando si tratta di diritti riproduttivi. Sembrerà un controsenso, ma nonostante ci siamo molti red States, gli Stati repubblicani, che hanno proibito l’aborto a diversi livelli, la gente non è così d’accordo sul rovesciamento di Roe v. Wade da parte della Corte Suprema e sulla limitazione della libertà femminile in tal senso. Pew Research ha registrato che il 63% degli americani pensa che l’aborto debba essere legale, contro un 36% di chi pensa debba essere illegale. Basta parlare letteralmente con le persone per rendersene conto, al di là dei numeri. I diritti riproduttivi sono, e non ho alcun problema a dirlo, uno dei temi sanitari cardine assieme alla questione dei costi da sostenere per la sanità.
Trump, dunque, ha forse visto questi numeri e, da brava scheggia impazzita che è ha pensato di correggere il tiro, in un goffo tentativo di attrarre più elettori, specialmente ora che lo si sta accostando sempre di più a Project 2025, che dedica molto spazio allo smantellamento completo della pratica abortiva, grazie anche al martellamento della campagna Harris e dei suoi sostenitori, come Lincoln Project. Ai conservatori più estremisti, come gli evangelici, questa virata non è andata giù, cosa che ha fatto tornare sui suoi passi The Donald sia nei giorni successivi, che al dibattito del 10 settembre, dove si è esibito nella peggiore retorica antiabortista possibile, citando anche la fake news secondo cui i Dem vorrebbero l’aborto a nove mesi e «giustiziare» (sì, questa è esattamente la parola tradotta papale dal dibattito) i bambini dopo la nascita. E, sempre al dibattito, Trump ha letteralmente buttato sotto l’autobus Vance, dichiarando in chiaro che non ha discusso con lui della questione, specie sull’affermazione del suo wannabe VP che Trump non sosterrà mai un ban federale sull’aborto, regalandoci uno scorcio della confusione che dev’esserci all’interno della campagna Trump nel cercare di accontentare i conservatori più feroci da un lato, accaparrarsi gli indecisi dall’altro e, disperatamente, distanziarsi da Project 2025 che l’elettorato inizia a conoscere e non sembra apprezzare un granché.
«Trump può davvero permettersi di fare questa scommessa?»
di Francesco Danieli
Si dice spesso che le elezioni si vincono al centro. Quelle americane potrebbero essere un esempio di questa teoria: in un contesto estremamente polarizzato, dove le basi dei due partiti sono molto decise a sostenere i rispettivi candidati, gli unici elettori da conquistare resterebbero al centro, tra i più moderati e i meno informati.
Avvicinarsi al centro, però, comporta anche dei rischi. Fino a dove posso arrivare senza compromettere il sostegno di chi è già al mio fianco? Entrambi i candidati di queste presidenziali, Kamala Harris e Donald Trump, si trovano di fronte a questo dilemma, ma le loro risposte, come si è visto al dibattito, sembrano essere completamente opposte. Harris si sta comportando da equilibrista: come ha scritto Giacomo, lei può allargarsi a destra con il suo sostegno al fracking e ricevere l’appoggio di repubblicani come Dick Cheney senza rompere con i suoi elettori di riferimento, il cui obiettivo primario resta sconfiggere Trump e tornare a una politica rivolta ai problemi reali.
Dall’altro lato, Trump non ha questo privilegio, e la sua posizione sull’aborto ne è l’esempio più evidente. Di fronte ha tre scelte. Può restare chiaramente su posizioni antiabortiste, mantenendo gli elettori evangelici (uno dei segmenti più importanti del voto repubblicano), ma rischiando di subire un remake della sconfitta alle elezioni midterm del 2022. Può spostarsi definitivamente al centro, conquistando nuovi elettori, ma perdendo probabilmente l’appoggio degli evangelici. Oppure può restare nel mezzo, continuando la sua tradizionale incoerenza e facendo ogni settimana dichiarazioni diverse.
Quest’ultima sembra la strada che vuole percorrere, ma si accompagna al rischio di non risultare né carne né pesce, per usare un altro proverbio. Invece di attirare i voti sia dei moderati che degli evangelici, potrebbe perdere pezzi su entrambi i fronti, e con loro le elezioni. Trump può davvero permettersi di fare questa scommessa?