"We used to do that": politica e chiacchiere da bar
Tre donne in un bar della Pennsylvania, a parlare di quello di cui non si può più parlare
Cuffia in testa e il grembiule nero indossato dalle donne sposate, due giovani Amish guidano un tipico buggy nella corsia a loro riservata, mentre a fianco sfrecciano pick-up e autoarticolati. Siamo arrivati in Pennsylvania, nella contea di Lancaster, nel primo pomeriggio, guidando da Washington verso nord, attraverso i boschi del Maryland. Dopo l’austerità nivea della capitale, questo è il mio primo incontro con quell’America che chiameremmo di provincia.
Lancaster è famosa per essere la contea statunitense con il più alto numero di Amish, circa 44.000 sui suoi 563.293 abitanti. A differenza della comunità religiosa con cui vivono fianco a fianco, però, i suoi cittadini non si astengono dall’esprimere la propria opinione politica. Sebbene faccia parte di quello che nelle elezioni presidenziali del 2024 è stato a tutti gli effetti uno swing state, la contea ha da sempre una solida affiliazione al GOP. Mentre giriamo in auto tra i pittoreschi villaggi di Intercourse, Ronks e Bird-in-Hand, i giardini curatissimi mostrano chiaramente a me e ai miei compagni di viaggio come il reddito medio della contea sia superiore non solo a quello dello Stato, ma anche a quello americano. Da quasi ognuna delle casette che si affacciano sulla strada che si snoda tra prati tosati al millimetro e campi di mais sventola la bandiera a stelle e strisce. Tra le tante, noto con la coda dell’occhio che da una villetta monofamiliare pende la bandiera disegnata da Betsy Ross. Mi chiedo se chi l’ha esposta abbia voluto lanciare un messaggio politico preciso o se sia semplicemente un simbolo neutro e, magari, un po’ vintage.
Quando finiamo il nostro classico giro da turisti nell’Amish Village di Ronks, è ormai ora di cena. Qualcuno, dall’Italia, ci ha consigliato di cenare in un bar della zona, il Vic’s Wayside Inn. Come mi spiegheranno più tardi, si tratta di un dive bar: un locale di poche pretese, con una clientela del posto e spesso fissa, che serve cibo e bevande semplici, ma soddisfacenti. Parcheggiamo vicino a due bassi edifici in legno scuro e, mentre giriamo per trovare l’ingresso, il mio sguardo cade su un cartello elettorale esposto a una delle finestre laterali, quasi nascosto. Si tratta del cartello che invita a votare Josh Shapiro come governatore dello Stato, con tutta probabilità risalente alla campagna del 2022. Più che i tanti stereotipi e aspettative su diner e bar americani, decido di lasciare che sia questo cartello a raccontarmi qualcosa del posto in cui sto per entrare.
Non appena oltrepassiamo la soglia del bar, mi rendo conto che la bartender e i quattro o cinque avventori pensano che i sette italiani appena entrati siano alla pari di sette bizzarri, rumorosi (e forse un po’ fastidiosi) extraterrestri. Ci vuole un po’ perché tutti e sette possano capire quello che la bartender, nonché cuoca, nonché cameriera ci spiega leggermente spazientita: il cuoco e l’altro barista sono in ferie (“It’s my busy week”, la sentirò dire più tardi al telefono), quindi se vogliamo mangiare non possiamo che accontentarci del chicken gravy and waffle, l’unico piatto offerto quella sera. Dopo aver chiesto l’immancabile acqua e qualche birra, mi alzo per uscire a fumare. Sto per oltrepassare il bancone, quando – forse incuriosita dagli extraterrestri d’oltreoceano, forse incoraggiata dall’avermi sentita ordinare in inglese – una donna al bancone mi sorride e mi ferma.
“What do you think of our country?”. Che cosa ne pensi del nostro Paese? Non realizzo immediatamente: le chiedo di ripetere, non riesco a credere a una domanda così esplicita. Prima di rispondere, ripenso al cartello elettorale esposto alla finestra e alla targa con la scritta FElon (un gioco di parole tra Elon Musk, la parola felon ossia criminale e, possibilmente, fuck Elon), che si mimetizza tra le centinaia presenti nel locale. Sentendomi rassicurata, le rispondo molto diplomaticamente di non essere nessuno di giudicare, ma di poter, al massimo, avere un’opinione personale: fino a quella mattina ero a Washington e mi ha colpito camminare per le sue strade e visitare i posti in cui succedono così tanti eventi rilevanti per gli Stati Uniti e non solo, a prescindere da chi sia il Presidente in carica. Non le dico che quando ho visitato Capitol Hill ho avuto la pelle d’oca, pensando al 6 gennaio 2021. Non le racconto nemmeno di come mi sono sentita la sera precedente quando ho appreso che la Corte Suprema – dai cui marmi ero stata lasciata a bocca aperta la mattina, visitandola – nel pomeriggio aveva annullato le decisioni dei tribunali inferiori, dando mandato al Presidente di continuare con i licenziamenti all’interno del Dipartimento dell’Istruzione. Lei continua a sorridere, ascoltandomi. Non facciamo nomi, ma è chiaro a chi ci stiamo riferendo ed è altrettanto chiaro il nostro pensiero in merito.
Deb – si chiama così la mia interlocutrice – mi chiede se io sia una turista e, parlando di viaggi all’estero, mi racconta di aver prestato servizio militare in Germania, negli anni Ottanta. Le chiedo se abbia assistito al crollo del Muro di Berlino, ma mi risponde di essere rimasta lì per soli tre anni, tra il 1985 e il 1988. Gli americani si spostano poco al di fuori del loro Paese, secondo Deb: mi racconta del viaggio in auto che ha fatto con degli amici, per arrivare dalla Germania alla Spagna. Dove andrebbe, se potesse? Lei non ha dubbi: “Tipo con uno schiocco di dita? In India”. Deb mi rivela di essere preoccupata da come, oggi, gli Stati federali assomiglino sempre più a singoli Stati indipendenti. Per capire le sue parole, basti pensare a come, non appena si varca il confine, possono cambiare le leggi in materia di aborto (con Stati come il Colorado, in cui è legale, e il Texas, in cui è vietato nella quasi totalità dei casi), di istruzione (dal Don’t Say Gay della Florida al curriculum scolastico dell’Illinois che prevede l’insegnamento obbligatorio della storia LGBT), di armi (il percorso per ottenere un porto d’armi a New York è molto più tortuoso che in Missouri), di accesso alle cure mediche e perfino di possesso di cannabis.
Racconto a Deb di essere un’insegnante in Italia: nel nostro Paese, settori come l’istruzione e la sanità sono pubblici ma è chiaro come, anche lì, la privatizzazione stia prendendo sempre più piede. Deb scoppia a ridere e mi dà un consiglio: “Oh, don’t go there!”. Dopo poco, senza mai smettere di sorridere, interrompe all’improvviso la conversazione e mi saluta: “Goodbye”. Torno al tavolo a godermi il chicken and waffle e la birra ghiacciata che, nel frattempo, la barista (Katie, si presenterà più tardi) ci ha portato. Ho la netta sensazione che, dopo il mio scambio con Deb, l’atteggiamento nei nostri confronti sia decisamente cambiato: Katie ci rivela di avere una portata extra nel menù – le patatine al posto del waffle – e scopro che, mente ero distratta, ha regalato a ognuno di noi una calamita con un maiale volante, logo del locale. Anche i tre uomini seduti al bar iniziano a parlarci, interessati al nostro viaggio e a farci conoscere aneddoti sul cibo italiano che hanno mangiato di recente.
Mentre sto mangiando, Deb esce dal bagno alle mie spalle. Mi prende per un braccio e si china per sussurrarmi all’orecchio: “Scusami, non volevo salutarti così prima, ma la proprietaria mi ha detto che sarebbe meglio non parlare di politica”. Aggiunge cinque parole che pesano come un macigno: “We used to do that”, una volta lo facevamo. Mi scuso immediatamente: mi sento in colpa per aver dato per scontato di poter dire quel che mi pare e piace, non con il tatto della viaggiatrice, ma con la sicumera della turista. Non volevo mettere in difficoltà né lei né Katie, ma Deb mi tranquillizza. Finita la cena e la birra, esco finalmente a fumare. Il tramonto sui campi di mais e sulla Lincoln Highway mi lascia senza fiato. Le lucciole, insetto simbolo della Pennsylvania, inondano i campi: in Italia non le ho mai viste prima che facesse buio, ma la loro luce è ancora più bella sotto il cielo rosa e azzurro.
L’ultima parte della nostra conversazione mi ha lasciata scossa e con le lacrime agli occhi. Mi è difficile ancora oggi capire bene il perché. Forse è stato il vedere come quello che fino a quel momento è stato un gigante si renda conto di essere in realtà alto come gli altri e ne abbia paura. Forse è stata una donna che, in un piccolo bar di provincia, ha avuto il coraggio di cercare negli altri che vengono così da lontano la conferma ai suoi timori, relegati per forza – come il cartello di Shapiro – in un angolo nascosto. Forse, ma potrei averla immaginata, è stata la silenziosa solidarietà di Katie. Forse è lo sconforto che ha accomunato tutte quando ci siamo rese conto che di certe cose non si parla. Non più.
Prima di andare via, Katie (con cui ho, nel frattempo, condiviso un’altra pausa sigaretta insieme a una delle mie compagne di viaggio) mi augura buon viaggio e di poter ritornare. “You’re young!”. Stavolta sono io a scoppiare a ridere, pensando alla proverbiale scaramanzia italiana. Chissà se tornerò. Sono in America da 72 ore e mi sono già dolorosamente innamorata.
Mi è piaciuto molto!