Una poltrona per due
La curiosità porta a occuparsi di tutto quello che accade oltre i propri confini, e la devo a una persona in particolare
Non me l’ero mai chiesto, prima di questo Carteggio. Perché mi occupo di Stati Uniti? Long story short: per colpa del Covid-19. Bene, arrivederci, avanti il prossimo.
Questa è la risposta che do di solito, per tagliare corto. Ed è vera, sebbene incompleta: la clausura durante la pandemia è state cruciale per farmi realizzare che se una cosa ti fa stare bene e fa bene agli altri, allora vale la pena farla evolvere in qualcosa di più. Per me, quella cosa è sempre stata la scrittura.
Fin da bambino – e intendo quando ti basta una mano sola per contare gli anni – ho sempre ammirato chi prendeva un concetto complesso, lo analizzava, lo scomponeva e lo rimetteva insieme in modo da renderlo più comprensibile agli altri. Al tempo non mi riusciva granché bene, ma mi affascinava. Crescendo, l’ammirazione è divenuta emulazione, e poi creazione originale condita dalla curiosità che mio padre si è sempre premurato di trasferirmi.
La sera arrivava a casa dopo il lavoro e la dialisi, e crollava in poltrona. La sua poltrona, quella a quadrati rossi e grigi, che aveva talmente preso la sua forma da essere diventata la più comoda di tutta la casa. Adoravo stare lì, accoccolato nel suo grembo, avvolto dal suo profumo Borsalino.
Un giorno – lo ricordo come fosse ieri – ce ne stavamo a parlare di chissà quale argomento quando a un tratto mi disse che la qualità più importante in una persona è la curiosità, e che avrei dovuto coltivarla più di tutto il resto. Dovevo fare domande, tante domande. Ci misi un po' di tempo a capirne il senso.
Con gli anni mi resi conto che le cose più importanti non sono la forza (per un bambino, figuriamoci), la bellezza e nemmeno l’intelligenza. Quelli sono più che altro talenti, che richiedono cura, allenamento o studio, ma sono intrinsecamente legati ai doni che l’abbinamento casuale dei cromosomi ci ha messo a disposizione. La curiosità, invece, dipende solo da noi: possiamo essere belli, forti e intelligenti quanto vogliamo, ma se non siamo curiosi non potremo mai sviluppare del tutto il nostro potenziale.
Persi mio padre quando avevo undici anni, quindi non sono del tutto sicuro che con il suo consiglio intendesse proprio questo, però mi piace pensarlo. È un concetto che mi ha talmente colpito da essere diventato un'ossessione, nel bene e anche nel male. Ancora oggi, quando qualcuno mi chiede cosa vorrei fare da grande, la risposta istintiva sarebbe: "Tutto". Figuriamoci per chi deve scegliere cosa studiare! Così, alle superiori mi formai dal lato tecnico. Poi, voglioso di cambiamento, da quello linguistico ed economico, all’università.
Questa fame, questa necessità di mantenere gli orizzonti più ampi possibili e di non fossilizzarsi in un solo ambito, non mi ha certo reso la vita facile, in un mondo che vuole persone iperspecializzate. Cominciai una carriera nella finanza, che continua ancora. Tuttavia, proprio durante la pandemia, si sbloccò un desiderio profondo. Mia moglie, donna dall’innata capacità di leggere dentro le persone e la prima a crederci davvero, c’era arrivata prima di me. Si mise a pungolarmi con insistenza, così cominciai a scrivere.
Sì, ma perché l’America?
Perché ho ereditato un’altra cosa da mio padre: la passione per tutto quello che succede nel mondo. Sono sempre stato attirato – in senso né positivo né negativo – dagli Stati Uniti, quindi non è un caso che il titolo del mio primo articolo sia stato Il punto della situazione nell’America del dopo Trump. Sono cresciuto a cavallo tra guerra fredda e realtà post sovietica, e ho notato fin da giovane che se vuoi capire il mondo non puoi non capire l’America. Tuttavia, mi sono presto reso conto che in Italia l’America poteva essere raccontata meglio.
Lo realizzai prima all’università, dove ebbi professori statunitensi che non vedevano l’ora di togliere qualche pregiudizio agli studenti, e poi nella vita reale. Ho la fortuna di vivere nella provincia più americana d'Italia, Vicenza, e negli anni dell’università mi feci amici dei soldati della base Ederle. Amicizie che coltivo tutt'ora e che mi hanno fatto capire quanto la visione che gli italiani hanno degli Stati Uniti sia spesso biased. Fu quindi una boccata d’aria fresca quando, anni dopo, capitai per la prima volta su Jefferson, poco dopo la creazione del sito.
Andai a guardare chi ci scriveva. Il vicedirettore era Gianluca Lo Nostro e, neanche a farlo apposta, era vicedirettore anche della testata con cui già collaboravo, theWise Magazine. Trovai il coraggio e gli scrissi per propormi. Mi fece scrivere un articolo per un carteggio sperimentale, What if…: avrei dovuto mettere in parole un’ucronia relativa agli Stati Uniti. Da appassionato di Philip K. Dick ci andai a nozze e immaginai un’America che rimaneva britannica, dopo aver perso la battaglia di Saratoga. Mi divertii come un bambino, e ci rimasi sotto.
Entrai in redazione e mi bussò sulla spalla quella maledetta sindrome dell’impostore che mi ha sempre accompagnato: che ci facevo io in mezzo a dei veri americanisti, che ne sapevano e ne sanno tuttora dieci volte il sottoscritto? All’improvviso, il consiglio di mio padre di tanti anni prima assunse tutto un altro valore. Curiosità significa orizzonti larghi, ma anche mettere in relazione ambiti diversi, unire i puntini. Diventai l’uomo degli “spiegoni”, quegli articoli che fanno proprio quello che da bambino ammiravo: documentarsi, comprendere, analizzare, far comprendere.
Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni, è che Matteo [il direttore di Jefferson, NdA] ha un fiuto eccezionale per le persone, e i redattori di Jefferson ne sono la dimostrazione. Aveva visto in me qualcosa che nemmeno io vedevo e fu un fulmine a ciel sereno quando, qualche tempo dopo, mi chiese di assumere la vicedirezione insieme a Laura per sostituire Gianluca, che nel frattempo aveva spiccato il volo che l'avrebbe portato alla Reuters, dove lavora oggi.
Quindi, alla fine, perché l’America?
Long story short, sul serio: per me, per mio padre e per chi ha avuto il coraggio di credere in me.