Trump perde l'appello: non è immune dall'accusa di cospirazione
La decisione della Corte d'Appello di Washington è una batosta per l'ex Presidente. Che, tuttavia, ha ancora carte da giocare, in primis la Corte Suprema.
La pretesa di immunità presidenziale che Donald Trump sta portando avanti in tribunale ha subìto un duro colpo. Il tycoon sta cercando in tutti i modi di assicurarsi l'immunità per i numerosi casi in cui è imputato, in particolare quello relativo all'accusa di cospirazione finalizzata a sovvertire il risultato elettorale che lo vide sconfitto contro Joe Biden nel 2020. L'impianto costruito dai suoi avvocati verte su un'interpretazione molto generosa del concetto di immunità presidenziale, che di norma protegge il Presidente dalle cause civili al fine di evitare che l'esecutivo ne venga paralizzato.
Trump sostiene che l'immunità presidenziale si estenda anche alle cause penali, territorio finora inesplorato dalla giurisprudenza americana. La quale, va specificato, funziona con un sistema di common law, ovvero basato sui precedenti giudiziari, diverso dal civil law al quale siamo abituati in Italia.
Dirimere questa ambiguità porta a scenari estremi. Se il Presidente fosse immune dal commettere reati, potrebbe assassinare un suo avversario politico senza subire conseguenze. Di converso, se non lo fosse, potrebbe dover subire le inevitabili conseguenze penali delle tante scelte che un Presidente è costretto a prendere in tempi rapidissimi. Ad esempio, ordinare un assalto che, se non eseguito, potrebbe portare a un attacco terroristico, ma che potrebbe anche portare alla morte di civili innocenti.
Al momento non esistono linee guida per discriminare quali sono i casi protetti da immunità e quali no, e creare delle regole precise in tal senso appare impossibile. Motivo per cui la Corte d'Appello federale di Washington, come spiega Jason Willick sul Washington Post, è stata molto attenta a inserire una dicitura nella sua sentenza che ha determinato che Donald Trump non gode dell'immunità presidenziale nel caso in questione:
«Facciamo notare da subito che la nostra analisi è specifica per il caso in esame, in cui un ex Presidente è incriminato per accuse penali federali derivanti dalla sua presunta cospirazione per sovvertire i risultati delle elezioni federali e prolungare illegalmente il suo mandato presidenziale»
Il concetto che la Corte d’Appello si è preoccupata di specificare è che la decisione non crea un precedente da utilizzare in futuro. Una soluzione simile a quella adottata dalla Corte Suprema quando si espresse sul riconteggio dei voti dopo elezioni del 2000, tra George W. Bush e Al Gore. Lo scopo è quello di non concedere l’immunità totale al Presidente, facendo in modo che le eventuali decisioni in merito vengano prese dai giudici caso per caso.
La Corte d'Appello federale di Washington ha smontato pezzo per pezzo le argomentazioni degli avvocati di Trump, pubblicando una motivazione della sentenza con un impianto legale solido. Oltretutto, la decisione è espressione unanime di tre giudici, due eletti da Biden e uno da George H.W. Bush, pertanto si tratta di una posizione già di per sé plurale. Tuttavia, la palla potrebbe ora passare proprio alla Corte Suprema, nel caso in cui Trump decidesse di farvi ricorso, cosa che può fare entro il prossimo lunedì.
Lì la partita sarebbe diversa. I giudici di nomina repubblicana hanno una maggioranza netta, che al suo interno ha una nutrita truppa di nomine scelte da direttamente da Donald Trump. Ne abbiamo già parlato in un Carteggio dedicato, il numero 64.
La pretesa di Donald Trump per cui un Presidente sarebbe immune addirittura nel caso in cui tentasse di sovvertire l'ordine democratico è grottesca, tuttavia la commistione tra politica e potere giudiziario insita nel sistema di nomina della Corte suprema fa tremare i polsi ai democratici – con la d minuscola –, con lo spettro un’ipotetica crisi istituzionale senza precedenti.
Nel caso in cui Trump ricorresse alla Corte Suprema, i suoi componenti dovrebbero come prima cosa decidere se accettare di affrontare la questione oppure rigettarla. Questa ultima opzione è quella che potrebbe levare le castagne dal fuoco a tutti. Lo scopo di Trump, piuttosto palese, non è tanto quello di averla vinta in tribunale, quanto di posporre le numerose sentenze che lo vedono imputato abbastanza a lungo da vincere le elezioni e graziare sé stesso, o far cadere le accuse dal suo Dipartimento di Giustizia. In questo senso, se la Corte Suprema accettasse di discutere la questione significherebbe dare a Trump esattamente ciò che vuole.
Rifiutando il caso, invece, oltre a evitare questo evidente bug del sistema, i componenti repubblicani di nomina trumpiana si vedrebbero tolto l’imbarazzo di non salvare persona che li ha nominati a quella stessa Corte, o di dover passare alla storia come le persone che hanno perpetrato il colpo di grazia alla democrazia americana.