Gli Stati Uniti e i Mari del Sud fra Old China e letteratura | Seconda parte
Le incipienti relazioni commerciali della giovane repubblica statunitense, fin da subito focalizzata sullo sfruttamento delle Hawaii e sul commercio diretto con le colonie spagnole delle Americhe.
Questo articolo è la seconda parte di uno speciale. La prima parte si può leggere qui.
Ancora fresco l’inchiostro della Pace di Parigi che nel 1783 ne aveva ratificato la conquistata indipendenza, i neonati Stati Uniti si erano trovati a fronteggiare una situazione economica fra le più difficili. Il governo era oberato dai debiti, i traffici paralizzati dall’esclusione dalla rete commerciale dell’Impero britannico e in particolare dalla perdita del ricco mercato costituito dalle Indie Occidentali britanniche: possedimenti che, dediti alla monocoltura della canna da zucchero e pressoché incapaci di produrre generi di prima necessità, sino al 1775 avevano importato dalle Tredici Colonie ingenti quantità di derrate alimentari, tessuti e legno, segnando la fortuna di porti come Boston, New York, Philadelphia, Baltimore e dei produttori dell’entroterra.
L’altra grande potenza commerciale dell’epoca e formale alleata degli Stati Uniti, la Francia, non sembrava ansiosa di firmare trattati che accordassero significative concessioni ai mercanti statunitensi. Nell’urgenza di procacciarsi nuovi sbocchi commerciali, già nel febbraio del 1784 salpava dal porto di New York l’Empress of China, un tre alberi adibito alla guerra di corsa durante il conflitto appena concluso e destinato, quindici mesi dopo, ad essere il primo bastimento statunitense a gettare l’ancora nel porto di Canton (Guangzhou).
A bordo si trovava in qualità di supercargo (ovvero di incaricato d’affari responsabile delle merci stivate a bordo) un ex ufficiale dell’Esercito Continentale, Samuel Shaw, che sarebbe divenuto il primo americano a ricoprire la carica di console a Canton. Si inaugurava a questo modo il cosiddetto Old China Trade, ovvero il commercio fra gli Stati Uniti e l’Impero Qing regolato dal Sistema di Canton, attraverso il quale il governo imperiale perseguiva una rigorosa politica di isolamento verso l’esterno.
L’accesso al Paese da parte dei mercanti stranieri era limitato al solo porto di Canton e gli scambi strettamente regolati attraverso l’intermediazione del Cohong, un gruppo di imprese ufficialmente abilitate a commerciare con i forestieri; era il Cohong, di concerto con il sovrintendente alle dogane di Canton ed il viceré dei Liangguang (ovvero le due province del Guangdong e del Guangxi) a stabilire il volume dei traffici ed i prezzi delle merci in uscita.
Queste comprendevano, al solito, prodotti di lusso come le porcellane, il tè, la seta, le lacche e spezie quali il rabarbaro e la cassia, destinate ad essere rivendute a prezzi astronomici sui mercati europei e statunitensi. Tale stato di cose sarebbe durato sino alla Prima guerra dell’oppio del 1839-1842, allorquando l’Impero britannico avrebbe forzato l’apertura commerciale della Cina sull’onda della sconfitta militare; tre anni più tardi la ratifica da parte del Congresso dei trentaquattro articoli del Trattato di Wangxia – modellato sui due trattati ineguali di Nanchino e di Humen già estorti dagli inglesi al governo imperiale al termine del conflitto – avrebbe significativamente ampliato le prerogative statunitensi, ponendo virtualmente fine all’Old China Trade.
Di questo commercio, come già accennato, si sarebbe avvantaggiato particolarmente il porto di Salem, i cui capitani spiccavano non solo nei traffici con Canton, ma anche in quelli per il pepe di Sumatra, così gettando le fondamenta della fortuna di pionieri dell’Old China Trade come Elias Hasket Derby e di abili dinastie di mercanti ed armatori navali come i Crowninshield, questi ultimi destinati ad essere annoverati per ricchezza, prestigio ed influenza politica fra le famiglie dei cosiddetti Boston Brahmins.
L’enorme patrimonio di esperienze, nozioni, manufatti acquisito dai commercianti di Salem sulle rotte per l’Estremo Oriente in poco più di quindicennio si sarebbe concretizzato nella fondazione, nel 1799, della East India Marine Society: benemerita istituzione dedicata non soltanto a raccogliere e preservare un simile lascito, ma ad utilizzarlo concretamente per la formazione delle successive generazioni di capitani e mediatori d’affari.
Non sarà difficile, a questo punto, riconoscere nella East India Marine Society – le cui collezioni già nel 1819 raccoglievano 110 manufatti provenienti dalle isole del Pacifico – l’archetipo di quella Newburyport Historical Society in cui il protagonista dell’Ombra su Innsmouth ha il suo primo contatto con uno dei gioielli dall’aspetto estraneo e inquietante che si riveleranno essere stati forgiati proprio dalla razza aliena dei Deep Ones avvicinata da Obed Marsh. Né stupirà che fra i membri fondatori della Peabody Academy of Science nel 1868, destinata a raccogliere l’eredità della East India Marine Society, risulti il grande paleontologo Othniel Charles Marsh, che a Lovecraft parrebbe aver ispirato quantomeno il nome del personaggio.
Il successo commerciale di Salem – come quello di Innsmouth – fu di breve durata, potendosi circoscrivere entro i termini temporali dell’Old China Trade, e tenendo conto che già la guerra del 1812 aveva inferto, per mano della Royal Navy, un colpo terribile agli armatori della città; ma l’Academy avrebbe continuato a prosperare nelle sue successive incarnazioni di Peabody Museum of Salem (dal 1915) ed infine di Peabody Essex Museum (dal 1992), la cui collezione di manufatti oceaniani, annoverante più di ventimila pezzi, è oggi fra le più ricche ed importanti al mondo.
Ma cosa mai esportavano i mercanti di Salem, ed in generale dei porti del New England, in una terra come la Cina imperiale, da sempre intimamente compresa della convinzione della propria autosufficienza e della superiorità dei propri prodotti? In primo luogo – parrà paradossale a dirsi – l’argento spagnolo, faticosamente raggranellato nei traffici con l’Europa, nella cui area mediterranea i mercantili statunitensi avevano operato una fortunata penetrazione commerciale sin dagli anni ’80 del Settecento.
A tale fonte di approvvigionamento si sarebbe aggiunto, a partire dal 1792, il commercio diretto con le colonie spagnole delle Americhe, conseguenza della partecipazione della Spagna alle guerre rivoluzionarie prima al fianco della Gran Bretagna, indi a quello della Francia contro i britannici (1796): tagliate le rotte marittime che congiungevano la madrepatria al proprio impero americano prima dai corsari francesi, indi dalla Royal Navy, fu di necessità che le colonie spagnole come Cuba si aprissero una dopo l’altra ai traffici con l’unica rilevante potenza commerciale neutrale – quella statunitense – pena non solo lo strangolamento economico, ma la stessa morte per fame.
Da qui una certa disponibilità di valuta pregiata imprescindibile per avviare i traffici con la Cina, stante l’insistenza delle autorità imperiali ad essere pagate in argento sonante e la loro tradizionale passione per i reales de a ocho spagnoli, in considerazione della generale elevata qualità del conio e quantità di fino (ovvero di metallo puro contenuto nella moneta). L’argento così accumulato dai cinesi non era a sua volta immesso nell’impero come moneta circolante, ma fuso in lingotti adoperati per le transazioni internazionali, per i grandi acquisti all’ingrosso e per il pagamento delle imposte; tale era la fame cinese per l’argento spagnolo – mercé una bilancia commerciale europea da sempre pesantemente in passivo nei confronti del Celeste Impero, un esportatore netto – che sin dal XVI secolo esso affluiva dalle miniere messicane e peruviane in Europa attraverso la porta dell’argento costituita da Siviglia, per poi perdersi velocemente, passando di mano in mano attraverso le transazioni d’affari, sempre più ad est.
Un tale stato di cose era ben evidente anche ai contemporanei, tanto che già nel 1621 il mercante portoghese Gomes Solis, nel suo Arbitrio sobre la plata, aveva scritto che «l’argento vaga traverso tutto il mondo nelle sue peregrinazioni, per poi finire in Cina, dove rimane come al suo centro naturale». Gioverà a questo punto osservare che la bilancia commerciale con l’Impero Qing sarebbe stata infine raddrizzata dai britannici solo a partire dagli anni Trenta del XIX secolo, attraverso prima il contrabbando dell’oppio prodotto nell’India britannica (e specialmente nel Bengala); quindi mediante la forzosa apertura dell’enorme mercato cinese al suo traffico legale – e al commercio di molte altri beni britannici a condizioni nettamente vantaggiose per il venditore – dopo le ripetute sconfitte patite dal governo imperiale nelle Guerre dell’oppio.
La disponibilità da parte dei mercanti statunitensi di argento spagnolo, tuttavia, non fu mai esorbitante e le modeste somme disponibili erano solitamente integrate da altri due articoli di esportazione particolarmente richiesti dal mercato cinese. Il primo era costituito dal ginseng, un corroborante e afrodisiaco adoperato dalla medicina tradizionale cinese la cui elevata domanda non poteva essere interamente soddisfatta dai raccolti in Manciuria e Corea: caso fortunato volle che questa radice (appartenente a Panax Quinquefolius, l’unica di undici specie di questa pianta erbacea perenne ad essere diffusa al di fuori dell’Asia orientale) crescesse spontanea nelle foreste decidue dei Monti Appalachi, ove veniva raccolta ed avviata verso i porti del New England.
Il secondo prodotto di esportazione era invece rappresentato dalle pellicce di lontra marina e di foca, che i mercanti statunitensi potevano acquistare a poco prezzo dalle tribù indiane della West Coast: in tal senso la modestia dell’investimento era però controbilanciata dalla lunghezza e pericolosità della tratta, che comportava la necessità di doppiare Capo Horn per poi risalire faticosamente l’intero continente sudamericano ed il Messico, sino a giungere alle zone di caccia costitute dalle coste comprese fra l’attuale stato dell’Oregon e la British Columbia.
La competizione, inizialmente accanita, da parte di inglesi, spagnoli e russi si sarebbe dissolta a partire dal 1792 per il coinvolgimento di tutte le maggiori potenze europee nelle guerre rivoluzionarie, permettendo così agli operatori statunitensi di stabilire un virtuale monopolio: e dalla necessità di appoggiare tali traffici ad una base o porto di riferimento derivarono i crescenti investimenti americani nelle Hawaii, sino a fare di Honolulu il principale scalo del commercio delle pellicce lungo la costa occidentale.
L’intensificarsi dello sfruttamento diretto di risorse solo lentamente rinnovabili, escludendo l’intermediazione offerta dalle tribù native ed organizzando grandi battute di caccia in proprio, avrebbe però condannato questo stesso commercio ad un rapido declino man mano che le popolazioni di mammiferi marini venivano sottoposte ad un indiscriminato massacro: tra il 1791 ed il 1795 i mercanti del New England avevano venduto sulla piazza di Canton 15.306 pelli di foca e lontra; nel solo 1801 le transazioni balzarono all’astronomica cifra di 444.807 pelli. Da qui in poi la flessione: fra il 1821 ed il 1827, con la lontra marina già ridotta sull’orlo dell’estinzione, gli americani poterono vendere a Canton solo 1.500 pelli di questa specie, supplite da 105.000 pelli di foca di minor pregio. La spietata degradazione degli ecosistemi non è realtà soltanto del nostro presente.
Due aspetti di questi traffici erano tuttavia destinati a rimanere strutturali: in primo luogo il crescente coinvolgimento economico degli attori statunitensi nelle Hawaii, cui avrebbe tenuto dietro una progressiva colonizzazione bianca delle isole ed una montante influenza politica destinata infine a concretizzarsi nel rovesciamento – come si accennava in apertura di questo articolo – della monarchia hawaiana nel 1893: autori del golpe i membri del cosiddetto Committe of Safety costituito da sudditi hawaiani di origine americana e di cittadini statunitensi, il cui obiettivo – infine centrato cinque anni dopo con la Newlands Resolution votata dal Congresso il 4 Luglio del 1898 – era rappresentato dall’annessione delle isole da parte degli USA.
Sino ad allora, e per tutto il corso dell’Ottocento, le Hawaii avrebbero costituito la base avanzata della penetrazione commerciale statunitense nel Pacifico, inizialmente alla ricerca di prodotti che potessero sostituire le pellicce sulla piazza di Canton: prodotti identificati, ad esempio, nel pregiato legno di sandalo delle Isole Fiji e Tonga, ove non tardarono a ripetersi gli stessi scempi ecologici che già la West Coast aveva dovuto subire.
In secondo luogo, sulla scia dei cacciatori di lontre e foche del New England, si sarebbe presto mossa alla conquista dei grandi spazi del Pacifico l’industria baleniera di Nantucket, destinata a ben maggiore durevolezza ed importanza per le sorti della nazione americana. Ma questa è una storia la cui complessità, e le cui ricadute sulla cultura statunitense, meritano di essere trattate separatamente.