Gli Stati Uniti e i Mari del Sud fra Old China e letteratura | Prima parte
Come i contatti tra le popolazioni indigene, gli imperi coloniali europei e la nascente potenza statunitense hanno rivoluzionato la cultura e la mentalità nativa.
Nel 1988, all’atto di licenziare alle stampe il terzo ed ultimo volume del suo magnum opus sulla storia dell’Oceano Pacifico, il grande storico e geografo tedesco naturalizzato australiano Oskar H. K. Spate decise di intitolarlo Paradise Found and Lost.
Perché un paradiso trovato e (subito) perduto? La prima e più ovvia risposta è a causa dell’impatto degli esploratori – quindi colonizzatori – occidentali sulle popolazioni polinesiane, micronesiane, melanesiane: armi, acciaio e malattie, verrebbe da sintetizzare riprendendo una recente formula tanto popolare quanto infelice nel suo determinismo.
L’influenza esercitata dalle potenze europee, infatti, non fu sempre e necessariamente esiziale e non è possibile ridurre le popolazioni oceaniane a rassegnate pazienti dell’iniziativa altrui; alcune società e culture collassarono, altre seppero trarre vantaggio dai nuovi venuti.
Lo spettro delle risposte adattive all’intromissione europea è quanto mai vasto. Esso va dalla distruzione della società tradizionale delle Isole Marchesi, la cui popolazione venne quasi annichilita dalle malattie introdotte dai nuovi arrivati e i cui manufatti sopravvivono oggi soltanto nei musei; a storie di successo come quella di Kamehameha, che proprio all’introduzione ad opera degli inglesi delle armi da fuoco dovette non piccola parte del suo successo nell’unificare le isole Hawaii, fondando attorno al 1782 un regno indipendente destinato a sopravvivere sino al 1893.
Tale impatto, che i nativi riuscissero a volgerlo a proprio vantaggio o meno, fu in ogni caso sempre decisivo e trasformativo, segnando un netto discrimine fra un prima e un dopo nella storia dell’Oceania.
Di ciò si era reso ben conto George Grey già negli anni Quaranta dell’Ottocento, assolvendo ai suoi doveri di governatore generale della Nuova Zelanda mentre curava la prima edizione di un libro fondamentale come Polynesian Mythology.
Nonostante, fra le popolazioni polinesiane, i Māori neozelandesi abbiano colto i maggiori successi nel mantenere un fiero spirito indipendente e nel rivendicare orgogliosamente una propria cultura che si proietta sino ai nostri giorni, questa non poteva che configurarsi come un prodotto di sintesi fra la cultura tradizionale precedente alla colonizzazione e quella dei colonizzatori inglesi; un processo di contaminazione in atto già a metà del XIX secolo, allorquando Grey riscontrò come, a seguito dell’introduzione della lingua inglese e dell’alfabeto latino, molte catene di trasmissione orale si stessero già interrompendo, ed il patrimonio di miti e saghe familiari ad esse affidato – su cui in ultima analisi riposava l’identità dei polinesiani di Aotearoa – andasse disperdendosi.
L’Oceania, uno spazio immenso che aveva assistito al più grandioso fenomeno di colonizzazione marittima della storia – quella di cui i popoli austronesiani erano stati protagonisti fra il 3.000 a.C. ed il XIII secolo della nostra era –, era destinata a essere rimodellata secondo le categorie brandite dagli agenti dei tradizionali imperi coloniali europei e della nascente potenza statunitense.
A tali categorie interpretative si deve ricondurre una dinamica forse più impalpabile, ma non meno cruciale, nel determinare la rapida perdita del paradiso. La grande esplorazione dell’Oceania, dopo le basi gettate nel XVI e nel XVII secolo, si ebbe soprattutto dopo la metà del XVIII secolo ad opera di uomini come Wallis, Cook, Bougainville e La Pérouse, in un’epoca rischiarata dagli ultimi bagliori dell’etnografia illuministica cui tanto caro era il mito del buon selvaggio. In tale ottica vennero sovente interpretati i popoli e le culture con cui gli europei entrarono a contatto: primitivi la cui prossimità allo stato di natura conferiva loro una beatitudine irraggiungibile per gli inciviliti europei.
Lo stesso Cook, a proposito dei nativi dell’Australia (allora chiamata Nuova Olanda) avrebbe chiosato, in una pagina famosa dei suoi diari, a proposito di genti “far more happier [sic] than us” perché ignoranti delle comodità della vita cui erano abituati gli europei, e per conseguenza “immersi in una tranquillità che non è disturbata dalle diseguaglianze di condizione”.
Colpiva degli aborigeni, così come avrebbe colpito dei polinesiani di Tahiti e delle Hawaii, l’assenza del concetto di proprietà della terra e la relativa maggiore rilassatezza dei costumi sessuali; e sebbene l’ambizione dei capi, le violenze tribali, gli indizi di sacrifici umani, la drammatica scarsità di risorse delle comunità insulari non sfuggissero ad osservatori più smaliziati come il naturalista Joseph Banks, o Johann Reinhold Forster e suo figlio Georg, sesso e proprietà avrebbero nutrito le idealistiche astrazioni dei philosophes di un intero continente.
Si trattava di un paradigma destinato a non reggere, sebbene le durevoli conseguenze della sua formulazione si proiettino sulla contemporaneità e sul nostro immaginario: come acutamente osservato da Alessandro Scafi nel suo Mapping the Paradise: a History of Heaven on Earth, nelle trovate pubblicitarie dell’industria del turismo ancora risuona una lontana eco della convinzione che, fluttuante da qualche parte in Oriente, fosse nell’Etiopia del Prete Gianni o nelle lusinghe sensuali della Tahiti della “regina” Purea, dovesse ben esistere un paradiso in terra ancora immerso in una primeva età dell’oro. Ma sul piede delle interazioni fra culture quantomai distanti e dei rapporti di forza che tengono loro dietro, l’uomo nuovo forgiato in Europa dalla Rivoluzione francese, animato da un’altera superiorità culturale sempre più intollerante e sempre più incline a colorarsi – nel dipanarsi del lungo Ottocento – di supremazia razziale, avrebbe fatto rapidamente giustizia del mito del buono ed onesto selvaggio, tosto ridotto dalle nascenti discipline antropologiche al rango di primitivo.
A dispetto del pregiudizio razziale animante l’antropologia fisica come essa era praticata nel XIX secolo, e nonostante la consapevolezza del suo essere stata un tool of empire nella grande stagione dell’imperialismo europeo – una realtà su cui la moderna antropologia ha preso ad interrogarsi con sempre maggiore onestà, animata dalla necessità di una revisione epistemologica dei suoi stessi fondamenti – è innegabile che gli studi antropologici abbiano comportato l’acquisizione di dati di realtà in linea con le osservazioni dei naturalisti ed etnologi settecenteschi più valenti e meno inclini a filosofare.
È altrettanto innegabile che questi dati di realtà abbiano comportato, soprattutto nelle relazioni fra colonizzatori bianchi e nativi oceaniani, una perdita dell’innocenza: l’infanticidio un tempo regolarmente praticato dagli abitanti di Tikopia – un’isola di appena 5 kmq, distante 130 km dall’isola più vicina – come strumento di controllo demografico a fronte di una drammatica limitatezza delle risorse disponibili, e studiato per la prima volta sul finire degli anni Venti del Novecento dal famoso etnologo neozelandese Raymond Firth, concorre a delineare ai nostri occhi una condizione che non potrebbe essere più lontana da quella beatitudine che Cook riteneva di aver colto nei costumi dei nativi.
Un simile cambio di passo non poteva non riverberarsi anche nella letteratura: già nelle invenzioni di Robert Louis Stevenson, breve ma acuto osservatore della società samoana scossa dalla guerra civile e ridotta, al volgere del XIX secolo, a terreno di scontro fra Stati Uniti e Germania guglielmina, pare potersi cogliere un sottile senso di angoscia sconosciuto agli illuministi; ed è plausibile la stessa rivendicazione stevensoniana per cui La spiaggia di Falesá del 1892 costituirebbe il primo racconto realistico ambientato nei Mari del Sud, col suo mettere spietatamente in scena le interazioni - altrettanto spietate - fra colonizzatori e missionari bianchi e nativi samoani.
La più che decennale contesa tedesco-statunitense per il controllo delle isole Samoa (destinata a risolversi soltanto nel 1899 con la Convenzione Tripartita e la spartizione dell’arcipelago fra le due potenze) aveva peraltro già determinato uno dei più singolari e drammatici episodi della colonizzazione del Pacifico. Il 15 marzo del 1889, dopo mesi di tesissime manovre navali fra una squadra statunitense ed una tedesca inviate a tutela dei rispettivi interessi nazionali durante la Prima guerra civile samoana, un ciclone aveva infatti sorpreso i bastimenti di ambedue le potenze alla fonda nella rada dell’isola di Apia: sebbene quest’ultima fornisse un ancoraggio notoriamente infido – esposta com’era al mare aperto – nessuno dei due contendenti aveva voluto abbandonarla per riguadagnare il largo, per tema che tale mossa potesse essere interpretata dall’altro alla stregua di un cedimento.
Fu così che i marosi gettarono in costa ambedue le squadre, provocandone la distruzione al completo con grave quanto inutile dispendio di vite umane e risolvendo di colpo la crisi politico-militare che Washington e Berlino non erano state sino ad allora in grado di disinnescare.
È tuttavia nell’opera di Howard Phillips Lovecraft che si compie forse la più drammatica inversione di prospettive, e risulta singolare la relativa scarsezza di letteratura critica sull’importanza che l’Oceania assume nell’edificazione dei miti di Cthulhu, complessiva rivisitazione in chiave incubica della stessa nascita ed evoluzione della vita sulla terra.
È nelle profondità del Pacifico meridionale che Lovecraft – ne Il richiamo di Cthulhu del 1928 – situa la città di R’lyeh, in cui “il morto Cthulhu attende sognando” il favorevole allineamento stellare che restaurerà il suo dominio sulla terra, destinata a consumarsi in “un olocausto di estasi e libertà”: città per le cui bizzarre architetture l’autore prese evidente ispirazione dalle rovine megalitiche di Nan Madol sull’isola di Ponape (odierna Pohnpei, nell’arcipelago delle Caroline), d’altronde ripetutamente citata nei suoi racconti.
A distanza di otto anni, in L’ombra su Innsmouth del 1936 ove Ponape è menzionata dal vecchio Zadok Allen interrogato dall’io narrante, si aggiunge un tassello fondamentale dell’universo lovecraftiano, saldandosi una personalissima rilettura della storia dell’Oceania al New England incubico di Arkham, Kingsport e Dunwich, proprio come la storia del vero New England e della sua espansione commerciale si era realmente intrecciata ai Mari del Sud.
Nella finzione letteraria Lovecraft mette in scena la cittadina costiera di Innsmouth e come essa venga baciata da un’inattesa fortuna, e da ancor più grandi ricchezze, a seguito degli equivoci traffici commerciali del capitano Obed Marsh con la Cina e con alcune misteriose isole della Polinesia.
A tale apparente opulenza fa però da contraltare la degenerazione di cui gli abitanti di Innsmouth cadono presto preda, culminante nella rivelazione dei rapporti di Marsh e dei suoi accoliti – mercé la corrotta tribù di canachi del capo Walakea, dedita a riti indicibili – con una razza primeva di anfibi abitatori delle profondità oceaniche: relazioni spinte sino all’instaurazione del culto dei Grandi Antichi ed all’abominio del connubio carnale d’onde discende una razza di ibridi immortali.
In simili invenzioni non vi è solo tutta la ripulsa del Lovecraft razzista verso il meticciato, già esplicitata dai racconti contemporanei al suo sofferto soggiorno newyorkese (esemplare, in tal senso, L’orrore a Red Hook) e derivanti dal trauma di un provinciale a contatto con la realtà di una grande metropoli multietnica. Innsmouth è il doppio demoniaco di Salem, la cittadina del Massachusetts meglio nota per i processi alle streghe del 1692 e 1693 (d’altronde ampiamente citati da Lovecraft e fonte d’ispirazione per le sue prime creazioni, prima di delineare il concetto di cosmic horror e tirarne le somme), ma anche porto commerciale che sui traffici con l’Estremo Oriente, ed in special modo con la Cina, aveva fondato la sua irresistibile ascesa commerciale fra il 1783 ed il 1845.