Radical Chic: il salotto che diventò arma culturale dei conservatori
Dal reportage di Tom Wolfe sui salotti dei Bernstein al rilancio strategico sulla National Review, storia del termine diventato un martello per la destra americana
Quando Tom Wolfe pubblicò Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers nel 1970, difficilmente immaginava che quel titolo sarebbe diventato una delle etichette più durature e incisive del discorso politico contemporaneo. Il suo reportage satirico, pubblicato originariamente sulle pagine del New Yorker e intitolato Radical Chic: That Party at Lenny’s, era ambientato nel lussuoso appartamento del Maestro d’orchestra Leonard Bernstein e di sua moglie Felicia, durante una serata organizzata in sostegno dei Panther 21. Il pezzo mise in scena uno dei contrasti più iconici della cultura politica statunitense: i lampadari di cristallo, i canapé e le celebrità progressiste che discutevano di rivoluzione sorseggiando champagne sembravano incarnare una discrepanza tra ideali radicali e comfort di classe. Wolfe non attaccava la causa dei Black Panthers, bensì l’atteggiamento di un’élite che trasformava l’impegno politico in elemento estetico o in una sorta di espiazione simbolica.
Da questa osservazione prese forma l’espressione radical chic, intesa come progressismo teatralizzato e consumato come performance, e da allora il termine non smise di segnare il dibattito culturale.
L’etichetta esplose rapidamente nel dibattito pubblico e divenne un’accusa sintetica che evocava ipocrisia e superficialità. Era perfetta per un’America attraversata da proteste, conflitti generazionali e tensioni razziali. Tuttavia, la sua fortuna non derivò soltanto dall’ironia pungente di Wolfe. Fu la destra intellettuale e in particolare William F. Buckley Jr. attraverso la rivista National Review a trasformare radical chic in un’arma culturale di grande efficacia.

Fondata nel 1955, National Review nacque con l’obiettivo di ridefinire l’identità conservatrice riunendo tradizionalisti, anticomunisti e liberali classici all’interno di un progetto culturale comune. Buckley intuì che la politica non si giocava solo sui contenuti, ma anche sulla capacità di modellare il linguaggio pubblico. Servivano concetti in grado di incidere nell’immaginario più delle argomentazioni tecniche, e radical chic rispondeva perfettamente a questa esigenza. Non delegittimava soltanto i gesti simbolici delle élite liberal, ma ne metteva in discussione l’intera pretesa morale e la coerenza interna, rendendola vulnerabile alle critiche culturali. Durante un’intervista allo stesso Tom Wolfe al talk politico di Buckley Firing Line, lo scrittore e giornalista dichiarava così: “I wasn’t writing about the Panther situation; I was writing about a stratosphere that we now know as social and intellectual life”1. Con queste parole, Wolfe, evidenziava come il suo intento fosse distante dall’analisi politica, orientandosi piuttosto verso una lettura sociologica e satirica della realtà. Tuttavia, è Buckley a reinterpretare il suo discorso, trasformandolo in un potente strumento retorico contro la sinistra dei salotti illuministi.
L’esempio dei Bernstein divenne così un paradigma narrativo. Filantropi, artisti e accademici che sostenevano cause radicali dai loro attici venivano descritti come attori di un teatro dell’impegno distante dalla realtà sociale che dichiaravano di rappresentare. La critica non colpiva la causa progressista in sé, ma la sua estetizzazione. Suggeriva che i sostenitori privilegiati fossero più interessati alla costruzione della propria immagine pubblica che al cambiamento reale. Negli anni Settanta e Ottanta questo meccanismo contribuì alla costruzione di un’identità conservatrice più sicura e pronta a contrapporre il proprio pragmatismo all’idealismo percepito come elitario. Con l’ascesa di Ronald Reagan e la crescente forza dei media conservatori, l’espressione entrò stabilmente nel vocabolario politico statunitense, gettando così le basi retoriche che avrebbero permesso a figure come Donald Trump di mobilitare consenso attraverso il populismo identitario e l’attacco alle élite. Accusare qualcuno di essere radical chic significa dunque ridurne l’autorità morale senza affrontare il merito delle sue idee, e la semplice etichetta era sufficiente a modificare la percezione pubblica.
La forza del termine risiede ancora oggi nella sua elasticità. Può colpire attori, giornalisti, designer, accademici, influencer o qualunque figura privilegiata che esprima sostegno a cause sociali. Con l’espansione dell’ecosistema digitale, il concetto si è sovrapposto all’idea di virtue signalling, cioè l’esibizione pubblica di valori progressisti come forma di prestigio o appartenenza. Nel 2025, dopo decenni di reinterpretazioni mediatiche, l’etichetta sopravvive come lascito di Wolfe, ma anche come prodotto dell’ingegneria linguistica della destra culturale di Buckley. Tuttavia, la sua diffusione comporta un rischio significativo, perché l’uso indiscriminato del termine può trasformarsi in una forma di demonizzazione preventiva di qualunque partecipazione civica proveniente dalle élite culturali, cancellando la possibilità che un individuo privilegiato possa impegnarsi in modo autentico e responsabile.
A più di cinquant’anni dalla sua nascita, radical chic rimane un concetto centrale per comprendere come la politica si intrecci con la percezione sociale. Il dibattito pubblico non si costruisce, dunque, solo sulle proposte e le promesse elettorali, ma anche attraverso le narrazioni percettive e mostra come, dai salotti di Manhattan fino ai social contemporanei, la linea che separa l’impegno dall’esibizione continui a essere sottile e decisiva.
“Non stavo scrivendo della situazione dei Panthers; stavo scrivendo di una stratosfera che oggi conosciamo come vita sociale e intellettuale”. (trad. autrice)



