Quando democratici e repubblicani riuscivano a discutere sulle armi
Dopo l'uccisione di Charlie Kirk, quasi nessuno sembra voler riaprire il dibattito sulle armi negli Stati Uniti. Eppure, negli anni Sessanta, furono violenze simili a spingere verso nuove leggi
Fin dalle prime ore che hanno seguito l’omicidio di Charlie Kirk, molti politici, giornalisti ed esperti, dentro e fuori gli Stati Uniti, hanno avvertito dell’avvicinarsi di un’escalation della violenza politica in America, un fenomeno che secondo alcuni non si sarebbe mai visto prima. Questa denuncia, purtroppo, è tanto nobile quanto antistorica. Come molti storici e politologi si sono affrettati a ricordare – e come anche noi in questa newsletter abbiamo spesso raccontato – la violenza è tutt’altro che estranea alla politica americana: sin dalla Rivoluzione, passando per la Guerra Civile e le proteste degli anni Sessanta, gli Stati Uniti hanno sempre avuto un rapporto ambiguo con la lotta armata, vista allo stesso tempo come strumento di emancipazione e di insubordinazione.
Se osservare questo fenomeno nella sua longue durée ci aiuta a comprenderne le origini e i punti in comune con il passato, è tuttavia anche utile cercare le caratteristiche che differenziano i nostri eventi da quelli storici. Uno dei punti più interessanti da analizzare è la reazione delle forze politiche verso la violenza, in particolare riguardo a un tema specifico: quello delle armi.
Oggi, l’uccisione di Kirk ha suscitato reazioni scomposte su questo tema. Poiché Kirk, tra le altre cose, era un sostenitore del Secondo Emendamento nella sua più ampia interpretazione di “diritto ad armarsi”, molte persone hanno reagito alla sua morte chiedendosi se non sarebbe l’ora per i repubblicani di interrogarsi maggiormente sulla propria posizione in merito. Eppure, pochi politici hanno utilizzato l’occasione per parlare dell’argomento in pubblico. I deputati democratici Jahana Hayes e George Latimer, per esempio, hanno ribadito la necessità di lottare per la regolamentazione delle armi, ma molti altri si sono ritirati dal dibattito, per non attirare accuse di sciacallaggio dai repubblicani. Questi ultimi, d’altro canto, si sono dimostrati nuovamente disinteressati a una limitazione della diffusione delle armi da fuoco, ricordando per esempio che i sistemi di background check per l’acquisto di armi non avrebbero impedito al sospettato Tyler Robinson di procurarsi il fucile usato per uccidere Kirk.
Questa impasse tra repubblicani e democratici, che da anni si ripete di fronte a ogni tragedia simile, non c’è sempre stata. In un altro periodo storico, che alcuni commentatori hanno paragonato a quello attuale, la violenza politica negli Stati Uniti spinse invece verso una delle legislazioni più importanti sul tema della regolamentazione delle armi: il Gun Control Act del 1968.
Gli anni Sessanta sono ricordati per il Sessantotto, la contestazione giovanile e il movimento per i diritti civili, ma non sempre si sottolinea abbastanza quanta tensione sociale accompagnasse tali fenomeni. Negli stessi anni in cui una parte della società americana non accettava che gli afroamericani volessero più diritti, il Paese stava uscendo dal maccartismo, viveva la fase più acuta della Guerra fredda e del Vietnam e stava affrontando un’ondata di crimine e di violenza politica legata allo scoppio del baby boom. L’improvvisa crescita demografica seguita alla guerra aveva portato a un aumento del 50 per cento della popolazione tra i 15 e i 24 anni, passata tra il 1960 e il 1970 da 27 a 40 milioni di persone. Poiché questo segmento demografico è il più incline a partecipare ad attività criminali, il suo aumento (unito alla crescita dell’urbanizzazione e al miglioramento della raccolta di dati su questi fenomeni) provocò un clima di ansia sociale incentrato sulla delinquenza giovanile, anche di stampo politico.
Ad armare questa nuova generazione ci pensavano uomini come Samuel Cummings, che con la sua International Armament Corporation si dedicava all’importazione negli Stati Uniti di armi leggere a basso prezzo, acquistate nel resto del mondo dagli arsenali che venivano dismessi dopo la Seconda guerra mondiale. Queste importazioni avevano trasformato le armi da una passione che occupava soprattutto veterani, cacciatori e sportivi in un fenomeno consumistico che interessava milioni di persone. Ciò spaventò sia i produttori di armi americani, che venivano colpiti dalla concorrenza a basso prezzo, sia i legislatori, che collegarono la diffusione delle armi all’aumento della criminalità.
Le prime iniziative per contrastare questo fenomeno furono presentate all’inizio degli anni Sessanta, in particolare dal Senatore democratico Thomas Dodd. Assistente del Procuratore generale tra il 1938 e il 1945, Dodd si era occupato di diversi casi relativi ai diritti civili, tra cui alcuni procedimenti legali contro il Ku Klux Klan, e aveva poi partecipato al processo di Norimberga e alle campagne politiche contro il maccartismo negli anni Cinquanta. Queste esperienze lo avevano trascinato verso il centro liberale, che si ispirava al New Deal come terza via moderata che contrastava sia il fascismo che il comunismo. Diventato chairman della Juvenile Delinquency Subcommittee (la Sottocommissione per la delinquenza giovanile) nel 1961, Dodd individuò nelle armi a basso prezzo il principale strumento dell’estremismo politico di destra e sinistra. Quando nel 1963 si scoprì che l’omicidio del Presidente Kennedy era stato commesso da un uomo, Lee Harvey Oswald, armato proprio con quelle armi economiche (un fucile Mannlicher-Carcano e una pistola Smith & Wesson), il tema divenne centrale nel dibattito politico. Gli scontri urbani della metà degli anni Sessanta, tra cui quello di Detroit che nel luglio 1967 causò 43 morti e 1189 feriti, e gli omicidi di Malcolm X, Martin Luther King e Robert Kennedy tra il 1965 e il 1968 non fecero che aumentare la pressione per una legislazione che contrastasse la violenza e placasse la paura della cosiddetta “maggioranza silenziosa” di fronte al conflitto che sembrava mettere in ginocchio il paese
Nel Sessantotto, l’amministrazione Johnson rese propria l’agenda di Dodd, iniziando a lavorare a una legge che contrastasse la diffusione delle armi e incaricando Milton Eisenhower (accademico e fratello dell’ex presidente Dwight Eisenhower) di ricercare le origini della gun violence attraverso la Commissione Eisenhower. L’argomento divenne una questione di civiltà: gli Stati Uniti, nel loro spirito modernizzatore, dovevano lottare contro una malattia che era degna solo di una società incivile, e non di un grande Paese come il loro. Dietro allo sforzo politico c’era un sostegno bipartisan da parte dei cittadini americani, a differenza di quel che sarebbe successo nei decenni successivi, spinto da un lato da questo mito civilizzatore e dall’altro dalla necessità di controllare la popolazione. I risultati a cui giunse la Commissione Eisenhower per contenere la violenza furono abbastanza semplici: l’unica soluzione era rimuoverne lo strumento primario, le armi. Il Gun Control Act, firmato da Johnson il 22 ottobre 1968, ci provò. Purtroppo, non sarebbe bastato.

Il GCA vietò la vendita per posta di fucili, proibì l’acquisto di armi da parte di pregiudicati, persone giudicate “mentalmente incapaci” o che facevano uso di droghe, e regolamentò maggiormente il commercio di armi, munizioni e accessori negli Stati Uniti, vietando l’importazione di armi “inadatte all’uso sportivo”. Effettivamente, questo bloccò l’arrivo di centinaia di migliaia di armi economiche. La legge, però, non impediva la spedizione della maggior parte delle parti che componevano quelle armi, né tantomeno la produzione di armi economiche all’interno degli Stati Uniti. Queste scappatoie legislative furono provocate in parte dal discorso civilizzatore che aveva caratterizzato il dibattito, che aveva dato vita all’idea che potessero esserci possessori di armi virtuosi, contrapposti ai criminali. Se da un lato questa idea aveva permesso di ottenere il sostegno dei produttori di armi e di associazioni come la NRA (National Rifle Association of America), dall’altro aveva impedito alla legge di raggiungere il suo obiettivo: diminuire la violenza eliminandone la causa.
Ciò nonostante, il Gun Control Act fornì, nel bene e nel male, una base per nuove legislazioni, che si sarebbero susseguite nei decenni successivi. A diminuirne l’efficacia sarebbe stato lo spostamento della NRA verso la difesa di un diritto senza limiti al possesso di armi, combinato con un allineamento sempre più forte da parte del Partito Repubblicano nei suoi confronti. Nel momento in cui le armi si sono trasformate in una questione identitaria in mano ai Repubblicani, e non più un problema su cui poter lavorare insieme, ogni legislazione proposta si ritrova con una spada di Damocle che la attende al cambio di amministrazione.
Questa strada ci riporta alle discussioni dei nostri giorni, nelle quali un maggiore controllo sulle armi diventa un tema troppo divisivo, anche se a morire è chi ne voleva di più.