L'onirico, l'orrore cosmico e il New England: il rapporto tra H.P. Lovecraft e il mare
La radice tridimensionale del rapporto tra il mare e il leggendario scrittore di horror americani.
La produzione letteraria di H.P. Lovecraft ha mantenuto col mare un rapporto costante che può farsi risalire a tre differenti radici: la dimensione onirica; una precisa scelta stilistica funzionale ad esprimere l’orrore cosmico; infine, il legame storico del New England col mare, che al Lovecraft antiquario non poteva sfuggire nell’economia della graduale costruzione di un suo doppio “incubico”.
La dimensione onirica
Quanto al primo punto, è noto che la vita di Lovecraft sia sempre stata caratterizzata da un’attività onirica fuori dal comune, quanto a vividezza e capacità di trattenerne nella memoria anche i minuti dettagli. Lo spunto narrativo di molti suoi racconti si può rintracciare in altrettante esperienze oniriche: da qui il cosiddetto ciclo dei sogni, ove finisce per emergere prepotente la straordinaria figura di onironauta di Randolph Carter.
In altri casi gli stessi racconti sono autentica trasposizione di un’esperienza onirica o più frequentemente incubica: è il caso delle atmosfere di opprimente sfacelo di Nyarlathothep. Il mare non poteva mancare come elemento dell’immaginario lovecraftiano e già nel 1919, in una lettera indirizzata il 27 settembre a Reinhart Kleiner, l’autore annotava di sognare «sempre più spesso strani paesaggi aridi, scogliere, distese oceaniche e città deserte con torri e cupole».1
Tuttavia il mare non sembrerebbe rivendicare un ruolo di particolare preminenza nell’affollato catalogo dei sogni lovecraftiani: non quanto gli altipiani sconfinati, le fantasmagoriche città erette da menti aliene, i vertiginosi picchi montani rischiarati dalla luce lattiginosa della luna; o le basse colline che formano le estreme propaggini dei monti Appalachi e che in The Dunwich Horror si sarebbero trasfigurate in ricettacoli di riti nefandi.
L’orrore cosmico
Più rilevante è l’intuizione che gli abissi possano essere messi al servizio di un’estetica dell’orrore entro un meccanismo narrativo ben congegnato. Sin dal suo fondamentale Supernatural Horror in Literature (1927), Lovecraft va costruendo una compiuta teoria letteraria che presieda alla realizzazione di una weird tale. Ammonisce l’autore che «questo tipo di letteratura del terrore non deve essere confuso con un altro genere apparentemente simile, ma psicologicamente assai differente: la letteratura del mero terrore fisico e dell’ordinariamente macabro».
L’atavica paura dell’ignoto e il senso di pericolo che ci assalgono nello scrutare le acque torbide non possono preludere a una prosaica minaccia fisica, al consueto squalo celato nell’ombra. «La vera weird tale ha qualcosa di più del segreto delitto, di ossa insanguinate, o della figura drappeggiata con tanto di sferragliare di catene». L’orrore cosmico subentra, piuttosto, quando si verifica «una maligna e particolare sospensione, o sconfitta, di quelle leggi fisse della Natura che sole costituiscono la nostra salvaguardia contro gli assalti del caos e contro i demoni dello spazio insondabile».2
È questa la radice dell’unspeakable lovecraftiano: l’autore può risultare talvolta goffo nel comunicare questa sensazione di radicale straniamento, che procede per un’accumulazione di aggettivi impari a un’impresa come il trasmettere le sensazioni derivanti dall’incontro con l’alterità assoluta. Lovecraft, però, è sempre conseguente alle premesse poste.
L’orrore è indicibile perché si pone oltre le leggi note: si determina giustappunto per la loro sospensione o violazione. È indescrivibile perché parte di quel vasto oltre che sfugge alle limitate facoltà dell’uomo: come le geometrie fantasmagoriche della sommersa R’lyeh, la città colossale in cui ogni prospettiva è falsata e l’ordinata collocazione degli oggetti nello spazio impossibile. Nemmeno dando l’assalto al ciclopico portone i protagonisti sanno dire con certezza se stiano effettivamente scalando una superficie che appare orizzontale.
Le profondità marine, nell’essere poste al servizio di questa poetica, divengono in Lovecraft immagine speculare delle profondità celesti, seguendo la suggestione di ascendenza genesiaca per cui prima di essere separate da Dio non v’era differenza fra le acque ch’erano sopra e quelle ch’erano sotto il firmamento. Lo stesso morto Cthulhu proviene dagli abissi dello spazio profondo per poi giacere nelle profondità del Pacifico, in attesa dell’allineamento stellare che lo porterà a risorgere: “come sopra così sotto”, secondo il principio di corrispondenza che costituisce uno dei cardini dell’ermetismo.
Lovecraft è un razionalista professo; è anche un discreto conoscitore dei principi della filosofia occulta – conoscenza per lo più di seconda mano – che piega al servizio della propria macchina narrativa. Come osservato da Sebastiano Fusco, «per Lovecraft la letteratura magica non aveva alcun significato intrinseco […] l’impiego di questo materiale è del tutto disinvolto, basato non sul senso profondo del concetto o della frase impiegati, che Lovecraft trascura del tutto e probabilmente ignora, bensì sulla loro funzionalità rispetto all’estetica dell’orrore che voleva raggiungere sul piano narrativo».3
Se tanto basta per fare giustizia delle riletture esoteriche della sua opera, resta innegabile che l’estetica dell’occulto serva anche a dare sfogo a pulsioni irrazionali tenute a stento a bada – come testimoniato da una prorompente attività onirica – da quell’armatura di ordinati nessi di causalità in cui l’autore professa di credere. O per meglio dire, in cui seguiterà a credere sino a quando non prenderà a metabolizzare la teoria della relatività, approdando ad una visione del cosmo come intrinsecamente caotico.
Come ebbe a scrivere il 26 maggio 1923 a James F. Morton, «tutto è caso, accidente ed effimera illusione […] tutto il cosmo è uno scherzo, e degno di essere trattato come uno scherzo, ed ogni cosa è tanto vera quanto un’altra».4 Da questo momento lo scarto fra l’universo caotico delle sue creazioni letterarie e il credo del convinto meccanicista di un tempo viene meno, e la teoria della relatività finirà per dare nuova linfa alle sue creazioni.
Il caos è orrore generato dal venir meno di un presunto ordine naturale: nelle profondità oceaniche, così come negli abissi stellari, Lovecraft opera ogni sorta di violazione dell’ordine. Questa sospensione delle leggi di natura può essere macroscopica, come in Dagon: un racconto testimone di una fase ancora acerba della sua produzione, in cui non ha ancora preso a inventare dèi seguendo la lezione dunsaniana e sperimenta con divinità prese dalla mitologia, come nel caso del dio-pesce dei Filistei. È una sospensione che può addirittura preludere ad un’apocalissi, ed è il caso di R’lyeh e del suo abitatore; ma può anche essere più sottile e meno sensazionale.
D’altronde la violazione si verifica a carico di ciò che per l’ordinario è creduto vero dall’uomo, e un fondamentale caposaldo della poetica lovecraftiana è che l’essere umano si illuda di sapere molto e conosca invero (e per sua fortuna) molto poco. È questa la geniale intuizione di The Horror at Martin’s Beach: il mostro si diparte dal centro della scena, le colossali dimensioni dell’antagonista non sono che accennate.
Al momento culminante la creatura nemmeno compare, rimanendo celata sotto il pelo dell’acqua in una indeterminatezza che è quella dell’unspeakable. Ciò che davvero conta è l’attribuire ad un pesce un intelletto superiore, una volontà volta al male e mezzi inusitati per servirsene. Tutte cose che per l’ordinario i pesci non dovrebbero avere: da qui la violazione dell’ordine ben più terribile dello spettacolo costituito dall’ordinata fila di vittime che vengono trascinate impotenti nel gorgo.
Lovecraft e il New England
Infine, vi è il Lovecraft antiquario: l’uomo che sfoggia una conoscenza minuta della storia del New England perché vagheggia nostalgicamente le scene di formale perfezione dell’età georgiana. Lo scrittore, invece, non si perita di procedere ad una deformazione anche di questo passato idealizzato, pur di seguitare a nutrire la sua macchina narrativa. Anzi, Lovecraft delinea una sorta di geografia dell’incubo in cui l’orrore cosmico affonda le proprie radici: un doppio nefasto del vero New England, ove la realtà si disfa e cede all’irruzione di mondi dominati da leggi aliene, o da nessuna legge.
Non a caso lo scrittore giungerà a sospettare che il reale, visto dall’interno del suo universo narrativo, non sia che una costruzione onirica: il sogno di una divinità cieca e idiota che bestemmia e gorgoglia al centro del cosmo. Si tratta nuovamente di un gioco di doppi, con quello stesso universo che, se considerato dall’esterno, è sì frutto di visioni oniriche, ma dell’autore. Le familiari fisionomie del Massachusetts si dissolvono. Le dinastie di austeri mercanti di Salem – i Derby, i Crowninshield, i Pickman – che ne avevano fatto la fortuna commerciando con la Cina, sotto la sua penna si trasmutano. Con l’abietta figura di Obed Marsh la benedizione dell’oro concessa ad Innsmouth si rivela tosto una maledizione, fondata sui commerci proibiti fra il vecchio Obed e una razza di abitatori degli abissi che giunge sino all’abominio del congiungimento carnale.
L’estetica dell’orrore di Lovecraft muta e si precisa col graduale delinearsi di questa landa incubica e con essa muta anche il ruolo rivestito dal mare. In The Strange High House in the Mist del 1926 questo è ancora in bilico fra sognanti atmosfere dunsaniane popolate di nereidi che fanno corte attorno a Nettuno e l’inquietudine ispirata da Nodens, signore del Grande Abisso; fra l’abitatore solitario della casa delle nebbie e la creatura senza nome che egli teme.
In The Shadow over Innsmouth del 1931 questa ambiguità ha ceduto il passo al cosmic horror in tutte le sue implicazioni, riassunto dalla scena della Scogliera del Diavolo, al largo della città, brulicante degli Abitatori del Profondo rischiarati dalla luna. I vari segmenti dell’orrore lovecraftiano si sono infine saldati in un insieme logicamente coerente. Non sfugge a questa ricomposizione nemmeno il protagonista. Egli, in un colpo di scena finale, scopre di discendere da quegli empi connubi, di appartenere alla razza degli Abitatori degli Abissi. Il protagonista è il mostro nel pristino senso etimologico di monstrum, il prodigio in deroga alle leggi naturali. Il sovvertimento dell’ordine non lo vede più come muto spettatore, o vittima impotente: lo investe direttamente e gli conferisce un’inedita dimensione. La metamorfosi è completa, egli appartiene pienamente all’orrore.
Pietro Guarriello (ed.), Oniricon, p. 47.
H. P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature, p. 6.
Sebastiano Fusco (ed.), Storia del Necronomicon di H. P. Lovecraft, p. 211.
August Derleth, Donald Wandrei (ed.), Selected Letters, 1911-1924, I, p. 231.