Non si può più dire niente: Trump Edition
La sospensione (poi revocata) di Jimmy Kimmel è uno dei primi passi verso l'abisso autoritario negli Stati Uniti e gli americani dovrebbero esserne più preoccupati
Alla fine, la tanto sbandierata cancel culture è davvero arrivata.
All’indomani dell’assassinio di Charlie Kirk, la sistematica risposta indignata repubblicana e dell’amministrazione Trump non si è lasciata attendere. Un’ondata che ha preso di mira dipendenti federali e del settore privato, insegnanti, professori universitari, ricercatori, fumettisti e addirittura membri dell’esercito, che si sono visti allontanare dal loro posto di lavoro, sospesi e penalizzati per aver scritto o detto qualcosa di negativo se non addirittura celebrativo riguardo la morte dell’attivista conservatore. Una campagna censoria che sta continuando anche ora, al momento della scrittura di questo articolo.
In mezzo alla crociata e alla celebrazione solenne dei funerali di Kirk, diventato un martire e un simbolo per il mondo della destra vicina a Trump, una sospensione mediatica sta facendo particolarmente paura per il grosso significato che porta con sé.
Se vi ricordate, a luglio scorso vi avevamo raccontato della rimozione del Late Show with Stephen Colbert dai palinsesti CBS a partire da maggio 2026, con la scusa delle spese troppo alte del programma, che ha appena incassato un Emmy Award. In realtà, tutti avevano capito che la soppressione del programma era dovuta al fatto che fosse necessaria perché potesse essere autorizzata la fusione tra Paramount e Skydance da parte della Federal Communications Commission (FCC) e a una battuta poco gradita di Colbert sul denaro che la stessa Paramount aveva pagato a Trump per un patteggiamento.
Proprio la FCC, guidata dal trumpiano Brendan Carr dal 2017, è la protagonista di un’altra illustre sospensione di un Late Show, quello di Jimmy Kimmel su ABC, che la scorsa settimana si è trovato bloccato all’improvviso. A Carr (e di sicuro all’amministrazione) non è andata giù una frase del conduttore durante il suo solito monologo. “Questo è un problema molto serio per la Disney [proprietaria di ABC, n.d.r.]. Possiamo farlo con le buone o con le cattive. Queste aziende possono trovare il modo di intervenire su Kimmel, oppure ci sarà ulteriore lavoro per la FCC”, ha detto Carr durante la registrazione di un podcast in cui era ospite. Le aziende di cui parla, a parte ABC e Disney, sono le proprietarie affiliate di ABC, Nexstar e Sinclair. Stavano decisamente tutte ascoltando, perché in un battibaleno le serrande di Kimmel sono state chiuse a tempo indeterminato, con tanto di accuse al conduttore da parte di queste ultime aziende.
L’affermazione incriminata è più o meno traducibile così: “Il mondo MAGA sta cercando disperatamente di caratterizzare questo ragazzo che ha assassinato Kirk come qualsiasi cosa tranne che uno dei loro, e sta facendo di tutto per ricavarne vantaggi politici”. Questa si inseriva in un discorso più ampio, sulla strumentalizzazione da parte dei conservatori della morte di Kirk e delle accuse alla sinistra liberal, che secondo loro avrebbe veramente mosso la mano di Tyler Robinson. Parlando poi della reazione di Trump alla morte di Kirk, che ha sviato una risposta parlando della sua nuova ballroom alla Casa Bianca, Kimmel ha detto: “Non è quella di un adulto che elabora il lutto per l’omicidio di qualcuno che chiamava amico. È lo stesso modo in cui un bambino di quattro anni elabora il lutto per un pesce rosso”.
Carr ha minacciato di revocare le licenze di ABC, accusando Kimmel di diffondere disinformazione e notizie false. Facendo un passo indietro, ABC ha già la sua bella storia con l’amministrazione Trump: lo scorso anno si era trovata a pagare 15 milioni di dollari al Presidente per una causa di diffamazione. Ora, con il fiato di Carr sul collo, la soluzione più semplice è stata piegarsi al volere censorio dell’amministrazione. Soprattutto quando – e qui casca l’asino – c’è in ballo l’intenzione di Nexstar di acquistare Tegna Inc (che possiede 64 reti TV) per 6 miliardi di dollari. Una compravendita che secondo le regole della FCC non potrebbe esserci, perché sfora il tetto massimo di reti televisive possedute da una singola azienda. Regola che Carr si era detto aperto a cambiare.
Sia Nexstar che Sinclair sono parte della galassia conservatrice. Sinclair ha rilasciato un comunicato in cui chiedeva a Jimmy Kimmel di scusarsi con la famiglia di Charlie Kirk e fare una donazione a Turning Point USA, l’organizzazione politica a cui Kirk faceva capo. Peccato che, giusto poco dopo l’assassinio dell’attivista, Kimmel avesse espresso piena solidarietà alla famiglia, condannando aspramente la violenza.
Donald Trump ha ovviamente festeggiato su Truth Social, e come lui altri esponenti del Partito Repubblicano. Proprio Trump, all’indomani della cancellazione dello show di Colbert, aveva preannunciato che Kimmel sarebbe stato il prossimo. La storia di antipatia tra i due è ben nota. Il Presidente si è augurato che anche altri show a lui non proprio vicini possano chiudere i battenti.
Carr stesso ha festeggiato in modo bizzarro sui social, con meme e gif celebrative, lasciando tutti un po’ perplessi.
Altri repubblicani, però, non hanno reagito molto bene alle azioni di Carr: tra loro Ted Cruz, che, pur condannando le parole di Kimmel, ha parlato di un atteggiamento mafioso – con una poverissima imitazione di un accento italiano – che può ritorcersi contro al mondo conservatore in un futuro in cui i dem torneranno al governo.
Jimmy Kimmel non ha commentato né risposto, probabilmente pensando al da farsi. Con lui sono rimasti a casa anche scrittori, cameramen e tutta la squadra dietro al programma, che ora è sicuramente in attesa di una risposta. Intanto, la sospensione ha scosso il terreno, soprattutto nel mondo democratico, che ha espresso solidarietà al conduttore. Primi fra tutti i colleghi, Colbert, Oliver, Fallon, Meyers e Stewart. Moltissimi stanno iniziando a boicottare Disney+ e cancellare i propri abbonamenti in protesta mentre si guarda preoccupati – di nuovo – a quella che ha solo un nome abbastanza inequivocabile: censura.
Brendan Carr non è uno sprovveduto. Seppur nominalmente, la cancellazione di Kimmel è in contrasto ai principi del Primo Emendamento della Costituzione statunitense, che protegge la libertà di parola ed espressione. Le azioni di Carr non sono – legalmente parlando – perseguibili. Muovendosi quindi sul filo dell’anticostituzionalità, l’amministrazione Trump o il Congresso sarebbero potuti essere citati a giudizio solo se fossero stati direttamente coinvolti nel silenziamento di Kimmel. Rimanendo nell’area grigia e lasciando che ABC e Disney facessero il lavoro sporco, Carr è riuscito a evitarsi la magagna.
Disney alla fine è tornata sui suoi passi, revocando la sospensione dello show di Kimmel, ma rivendicando la decisione iniziale. La paura era quella di “infiammare ulteriormente la tensione”. Non ci è dato a sapere cosa veramente sia successo dietro le quinte: di certo (a differenza di quello che dicono molti media) non è una sfida del colosso dell’animazione all’amministrazione Trump. Piuttosto una tregua, e nonostante questa revoca la riflessione da fare non cambia.
Sono anni che sentiamo i repubblicani imbracciare la battaglia della libertà di espressione e parola, facendosene i veri portatori, per contrastare invece le istanze liberal e democratiche che vogliono – secondo loro – “cancellare” o limitare le capacità altrui. Carr stesso si definisce un “purista” del Primo Emendamento e difensore della libertà di parola assoluta. Quante volte abbiamo sentito dire: “Eh ma non si può dire niente”, a seguito di qualche articolo di giornale su una presunta cancellazione in favore della fantomatica cultura woke.
Quella di Kirk non è la prima violenza politica. Lo scorso giugno, la democratica Melissa Hortman, deputata della Camera dei Rappresentanti del Minnesota, e il marito hanno perso la vita sotto i colpi di fucile di Vance Luther Boelter, che nella sua auto teneva una lista di personalità vicine al Partito Democratico e ai difensori di diritti civili e riproduttivi, mentre il senatore dello stesso Stato John Hoffman e la moglie sono rimasti feriti nello stesso attentato. Nel 2022 il marito di Nancy Pelosi, Paul, aveva invece subito un attacco con un martello nella sua casa da parte di un QAnon, David DePape. Il mondo repubblicano aveva commentato l’incidente in chiave ironica, Trump compreso, e nessuno ha detto nulla.
Le cose cambiano, le maschere cadono, e ci si accorge che non è altro che il naturale decorso di uno Stato autocratico. I media sono tra le prime vittime delle paranoie dittatoriali e quando si iniziano a mettere dei limiti alla libertà di esprimersi, i guai iniziano a essere seri. Tutto era ben noto prima delle elezioni di novembre: Carr è autore del capitolo sull’amministrazione dell’FCC su Project 2025, che sta venendo seguito alla lettera.
Ce l’avevano preannunciata, la cancel culture, e ora è servita su un piatto d’argento. E mentre Trump dall’Air Force One dice che se il 97 per cento delle emittenti televisive sono contro di lui allora le licenze dovrebbero essere revocate, ci si domanda chi sarà il prossimo a finire cancellato e sospeso, quando si passerà ai giornalisti, agli avversari politici o agli attivisti. La manipolazione e il controllo dei media sono nel manuale del dittatore, fa parte di uno schema visto e stravisto: l’hanno fatto Mussolini, Hitler, Stalin, Putin, Orban, Vucic, Pinochet, e la lista è ancora lunga. Si andrà sempre più in là, un pezzetto alla volta. Gli americani forse dovrebbero rendersi conto che da qui difficilmente si torna indietro. Per ora Kimmel si è salvato, ma per quanto ancora?
Siamo arrivati a un punto in cui una frase che spesso abbiamo sentito è diventata tristemente vera: negli Stati Uniti del 2025, the land of the free, non si può davvero più dire nulla.