Sfida ai confini del mondo. La vera storia di Master and Commander – Parte II
Gli eventi reali da cui hanno preso ispirazione il romanzo di Patrick O'Brian e il film con Russell Crowe.
Leggi la prima parte qui.
Sfida ai confini del mondo
Nel 1815, al sicuro in patria e a guerra ormai finita, il capitano David Porter, all’atto di pubblicare la prima edizione del suo resoconto sulle vicissitudini della Essex, si accingeva a licenziare per la stampa quello che sarebbe divenuto in breve un vero e proprio classico della letteratura di mare; un’opera destinata a esercitare una considerevole influenza sul pubblico statunitense, schiudendo per la prima volta ai lettori un mondo sino ad allora sconosciuto e favoloso come quello dei mari del Sud.
Il suo Journal of a Cruise made to the Pacific Ocean, tuttavia, non è un giornale di bordo nel senso proprio del termine, inteso come asciutto resoconto dei fatti registrati a scadenza giornaliera: esso è in primo luogo un documento apologetico elaborato a distanza di un anno dallo svolgimento dei fatti e come tale fortemente deformante la verità storica. In fin dei conti l’impresa di Porter si era conclusa con la sconfitta e la cattura; un epilogo inglorioso che egli si trovava a dover giustificare non solo a causa delle gravi perdite in vite umane, ma soprattutto a fronte di un esito determinato dalla sua decisione di trasgredire per ben due volte gli ordini ricevuti.
Le istruzioni impartite dal Segretario della Marina William Jones prevedevano che si aggregasse alla squadra di Bainbridge ed egli, facendo di testa propria, si era invece lanciato in un’avventurosa circumnavigazione in solitaria dell’America meridionale. Quelle stesse istruzioni gli raccomandavano di distruggere i traffici commerciali del nemico avendo però cura di evitare, per quanto possibile, lo scontro diretto con le forze della Royal Navy; ancora una volta, come vedremo, Porter avrebbe trasgredito a quelle raccomandazioni, ricercando anzi apertamente il duello con la Phoebe di Hillyar. Il resoconto di Porter abbonda di dettagli sulla presunta perfidia e sulla doppiezza inglesi che avrebbero causato la perdita della Essex; e la seconda edizione del 1822 delle sue memorie sarebbe stata estesamente riveduta e corretta proprio per rispondere alle critiche sulla sua condotta che si erano frattanto moltiplicate in patria.
Per contro, sebbene il capitano Hillyar non abbia lasciato alcuna memoria fuorché una stringata relazione ufficiale dello scontro finale nella baia di Valparaíso indirizzata a John Wilson Croker, Primo Segretario dell’Ammiragliato (e pubblicata già nel 1814 nel volume XXXII della Naval Chronicle), possiamo seguire il versante inglese della storia grazie ad una fonte d’eccezione costituita dal giornale di bordo tenuto da un giovane allievo ufficiale di 19 anni, Allen Francis Gardiner. Sebbene ovviamente non neutrale, esso si giova però di quel candore spoglio di finalità apologetiche che caratterizza gli scritti non destinati alla pubblicazione: il manoscritto originale, battuto all’asta, è stato trascritto e pubblicato per la prima volta soltanto nel 2013 ad opera del defunto professor John S. Rieske.
Pur nella sua giovanile ingenuità, Gardiner è un testimone di grande sensibilità: lo sorregge un acuto spirito di osservazione rivolto più alle cose di terraferma che al mare, tratto che ci permette di dare corpo e colore alla nostra storia. Davanti ai suoi occhi spiccano i paesaggi insulari come Tenerife, con le sue cime brulle e coperte di neve; il remoto e aspro arcipelago di Juan Fernández, le Galápagos in tutta la loro stranezza. Fatto scalo a Santa Cruz de Tenerife, egli contempla la croce eretta a commemorazione del fallito sbarco del 1797 che era costato a Nelson l’unica grande umiliazione della sua carriera e la perdita del braccio destro; in una delle tre chiese della città scorge anche le due Union Jack strappate agli inglesi in rotta e ivi conservate come trofei.
Il passaggio per Capo Horn, con sua grande sorpresa, è molto meno traumatico dei resoconti di terribili tempeste tramandati da generazioni di marinai; tal che già l’11 settembre la Phoebe dà fondo nella baia di Cumberland dell’isola di Más a Tierra. Il luogo gli richiama subito alla mente il Robinson Crusoe di Daniel Defoe per il suo essere stato teatro della nota vicenda di Alexander Selkirk, nel 1704 abbandonato sull’isola dalla propria nave e per quattro anni e mezzo sopravvissuto in completa solitudine. La colonia penale impiantatavi frattanto dagli spagnoli sortisce in lui un’impressione tanto pessima quanto è deliziato alla vista della figlia del governatore spagnolo, e nel corso della breve visita non manca nemmeno di annotare di aver veduto rigogliosi i susini piantati nel 1741 dal commodoro Anson durante la circumnavigazione che aveva condotto gli inglesi alla cattura del Galeone di Manila.
Sono soprattutto le estreme sperequazioni sociali e le vaste masse di manodopera schiavile tipiche delle colonie sudamericane a colpirlo, e sfavorevolmente. D’altronde la Gran Bretagna era il Paese allora maggiormente all’avanguardia nel dibattito sull’abolizione della schiavitù sin dalle campagne parlamentari di Thomas Clarkson e William Wilberforce, culminate nello Slave Trade Act del 1807 col quale si era quantomeno provveduto a mettere fuori legge la tratta. Nella splendida cornice naturale della baia di Rio de Janeiro gli rimane impresso della città il netto contrasto fra l’opulenza delle chiese e la povertà delle casupole addossate lungo le vie tortuose; un giudizio che, mesi dopo, ritornerà in occasione della sua visita a Lima, ove stima il valore degli arredi nella sola chiesa di Santo Domingo all’astronomica cifra di un milione e mezzo di sterline.
A Tumbes, un villaggio nell’estremo nord del Perù alla foce dell’omonimo fiume, descrive con sincera compassione i tuguri fatti di fango in cui abitano i contadini e si stupisce che persino la “residenza” del governatore conti non più di due stanze col pavimento in terra battuta, arredate con mobilio talmente vecchio e male assortito che le cassapanche – egli annota – sembrano essere state prese di peso dall’arca di Noè: ma qui Gardiner pecca di ingenuità, perché una maggiore contezza degli affari del mondo avrebbe potuto suggerirgli che tale abietta miseria fosse allora prerogativa non solo del sud del mondo, ma dolorosa realtà anche per lo spossessato contadiname irlandese pur parte del civilizzato Regno Unito.
Frattanto il capitano Hillyar aveva i suoi grattacapi: separatosi dalla lenta Isaac Todd mentre era impegnato a doppiare Capo Horn ed ora rimasto in compagnia dei soli sloop, seguitava a risalire la costa del Cile e del Perù senza ravvisare traccia alcuna di Porter. La sosta a Tumbes si sarebbe però rivelata determinante, venendo egli in contatto con alcuni balenieri inglesi che sostenevano di essere stati catturati dalla Essex nella zona delle Galápagos, per poi venir sbarcati su quel tratto di costa. La Phoebe riprese la rotta verso nord, e proprio mentre era in procinto di tagliare l’equatore le giunse notizia che la scomparsa Isaac Todd era stata forse catturata proprio dalla nave statunitense; Hillyar decise così di distaccare lo sloop Racoon inviandolo contro Fort Astoria nel tentativo di adempiere agli ordini originali, mentre assieme al Cherub egli avrebbe continuato a dare la caccia a Porter.
Quella della Isaac Todd e del Racoon sarà comunque una storia a lieto fine: la notizia circa la cattura della prima si rivelerà falsa, mentre il secondo, una volta giunto alla foce del fiume Columbia il 30 novembre 1813, scoprirà che gli agenti di Astor avevano già provveduto a liquidare l’insediamento di Fort Astoria senza sparare un colpo, vendendolo alla North West Company per la somma di 58.000 dollari.
Hillyar, dal canto suo, seguitava a dirigersi sempre più a nord sino a raggiungere le Galápagos il 23 ottobre e dar fondo nella baia di Elizabeth dell’isola di Isabela, usuale punto di ritrovo delle baleniere britanniche che battevano quelle acque: gli inglesi la trovarono però deserta, essendo stata la gran parte di quei bastimenti già catturata da Porter. Ancora una volta nessuna notizia della nave. Gardiner avrà giusto il tempo di descrivere le tartarughe giganti, all’epoca apprezzatissima fonte di carne per gli equipaggi costretti a far provvista: gli inglesi, sempre più disperando di poter agguantare la Essex, invertirono subito la rotta per Callao, il porto di Lima, ove ormeggiarono il 5 dicembre. Il capitano inglese era ormai deciso a far nuovamente vela verso sud e, dopo un’ultima sosta a Valparaíso nella speranza di carpire qualche informazione, passare nuovamente Capo Horn qualora della Essex non si fosse avuta traccia. Si immaginerà pertanto la sorpresa di Hillyar allorquando, fatto il proprio ingresso nella baia di Valparaíso l’8 febbraio 1814, vi trovò alla fonda la Essex assieme a parte delle sue prede.
Cosa era stato frattanto di Porter e cosa lo aveva condotto nuovamente lungo le coste cilene? La Essex aveva doppiato Capo Horn e fatto il proprio ingresso a Valparaíso il 15 marzo 1813, con almeno sei mesi di vantaggio sulla Phoebe; la colonia cilena era allora in rivolta contro il vicereame del Perù fedele alla Spagna e Porter aveva potuto far leva su questa situazione.
Sempre intraprendente, si era cattivato grandi simpatie e aveva potuto contare, in cambio, sulla disponibilità delle autorità locali a ragguagliarlo sui movimenti degli inglesi, allora alleati degli spagnoli. Venuto a sapere dal master di una baleniera americana che la baleneria inglese concentrava le proprie attività a nord e principalmente nell’area delle Galápagos, era subito partito in caccia. Il 17 aprile incrociava già in quelle acque, abbordando la sua prima preda una decina di giorni dopo: la Essex aveva accostato sotto falsa bandiera britannica e lo stesso Porter, fingendosi un ufficiale inglese inviato a protezione dei commerci nazionali, si era intrattenuto in conversazione col master della nave, ottenendone preziose informazioni sul numero e l’ubicazione degli altri bastimenti inglesi in zona. Soddisfatta quindi la sua curiosità, con un cenno aveva fatto scattare le squadre di abbordaggio.
Grazie a quei ragguagli la Essex avrebbe potuto far strage, catturando tre baleniere soltanto il primo giorno e valutandone il carico a quasi mezzo milione di dollari. Altre ne sarebbero seguite, sino a totalizzare dodici prede entro il 18 settembre, tutte catturate nel tratto di mare fra le Galápagos e il golfo di Guayaquil: nelle sue memorie Porter avrebbe valutato le perdite economiche inflitte agli inglesi a 5,5 milioni di dollari, cifra in ultima analisi opinabile perché soltanto uno dei legni catturati sarebbe riuscito a raggiungere indenne gli Stati Uniti per esservi rivenduto. Delle altre undici prede, due sarebbero state rilasciate dallo stesso Porter per permettere lo sbarco dei prigionieri (gli stessi incontrati a Tumbes da Hillyar), una bruciata deliberatamente dagli americani nella baia di Valparaíso e le rimanenti ricatturate dagli inglesi dopo la sconfitta della Essex.
Frattanto, tuttavia, gli americani si trovavano a gestire una flottiglia di ragguardevoli dimensioni: fra le baleniere catturate Porter scelse la Atlantic in virtù delle sue eccellenti qualità nautiche e provvide ad armarla con 20 cannoni, ribattezzandola Essex Junior e incaricandola di scortare, al comando del tenente Downes, cinque delle baleniere catturate a Valparaíso per poi ricongiungersi alla Essex al più tardi in ottobre. Proprio nel porto cileno Downes sarebbe venuto a conoscenza dell’irruzione della squadra inglese nel Pacifico, riportandone il 30 settembre notizia alla Essex mentre questa ancora si attardava nelle acque ecuadoriane: Porter comprese immediatamente che solo la distruzione della sua nave poteva giustificare una simile incursione in forze e pochi giorni dopo si accinse a fare vela per le isole Marchesi, lontano dalla costa sudamericana e dalle più battute rotte commerciali.
In quel momento, e in barba agli ordini ricevuti, Porter aveva già deciso di incrociare la spada con Hillyar: condizionato dai successi mietuti dalle fregate americane negli scontri individuali durante i primi mesi di guerra, egli si sentiva in dovere di rinverdire tali allori dimenticando che le vittorie della USS Constitution sulla HMS Guerriere e la HMS Java, o della USS United States sulla HMS Macedonian, erano stati colti contro unità di potenza marcatamente inferiore. Porter giunse insomma alla conclusione che solo una vittoria in combattimento avrebbe potuto suggellare degnamente quella incursione nel Pacifico e consegnare le sue azioni alla storia, ragion per cui scelse un rifugio sicuro onde prepararsi alla battaglia.
Nuka Hiva, raggiunta il 25 ottobre, non era certo il sensuale paradiso hawaiano che Porter aveva fatto balenare di fronte agli occhi dei suoi uomini per motivarli al sacrificio; le tribù isolane si rivelarono ostili costringendo gli americani a più di un’incursione in armi, ma i lavori sulla Essex procedettero in modo sufficientemente spedito e il 12 dicembre essa era pronta a prendere il mare assieme alla Essex Junior, lasciando alle Marchesi tre delle baleniere catturate. Il 3 febbraio 1814 le navi erano nuovamente a Valparaíso, lo scalo più ovvio per qualsiasi bastimento facente rotta da o per Capo Horn. Cinque giorni dopo venivano raggiunte dalle navi di Hillyar.
La battaglia
Iniziava così uno snervante stallo destinato a protrarsi sino al 28 marzo: un’attesa in cui nessuna delle due navi era disposta a violare la neutralità della baia di Valparaíso e cercava di provocare l’altra ad accettare lo scontro in mare aperto, alle proprie condizioni. Condizioni tanto differenti quanto lo erano le caratteristiche delle due navi: la Essex godeva di un maggiore peso di bordata, vantando un armamento principale di quaranta carronate da 32 libbre (che la nave fosse classificata ufficialmente come fregata da trentadue cannoni è puramente indicativo; tutte le fregate americane, nella guerra del 1812, finiranno per montare molte più bocche da fuoco di quelle nominali).
Le carronate erano tozzi cannoni a canna corta e di grosso calibro, che sparavano proietti più pesanti e risultavano particolarmente letali se caricate a mitraglia e azionate a bruciapelo: più facili da brandeggiare e rapide da ricaricare, garantivano una maggiore potenza di fuoco rispetto ai cannoni tradizionali, ma presentavano lo svantaggio di avere una gittata molto ridotta, per cui la Essex avrebbe dovuto serrare sul nemico per far valere la propria superiorità di fuoco. La Phoebe, per contro, poteva contare su ventisei cannoni da 18 libbre di potenza inferiore ma di lunga gittata, che le avrebbero permesso di bersagliare l’avversaria da una distanza tale da impedirle di rispondere al tiro.
Tutto si sarebbe giocato sull’abilità di Porter di imporre uno scontro serrato, bordo contro bordo, contro quella di Hillyar di tenere l’avversario a distanza di sicurezza. Giorno dopo giorno gli equipaggi si provocavano con cori patriottici e issando bandiere di sfida, ma Hillyar sarebbe sempre stato ben attento a mantenere la propria nave ragionevolmente discosta e sopravvento al proprio avversario, precludendogli ogni possibilità di manovrare aggressivamente così come di fuggire. Porter, dal canto suo, solo ora iniziava a realizzare di essersi cacciato in una trappola in cui il tempo giocava a vantaggio dell’inglese.
A dispetto dei ripetuti tentativi non era riuscito a provocare a battaglia il più esperto e paziente Hillyar: il 28 febbraio era ricorso persino allo stratagemma di trainare in alto mare la Hector, una delle baleniere di preda, e appiccarle il fuoco sperando che gli inglesi si sentissero tenuti a intervenire. Tutto invano. Il capitano statunitense ora sapeva, per esserne stato informato dai suoi contatti nella comunità mercantile di Valparaíso, che altre due fregate inglesi (la HMS Tagus e la HMS Briton) si approssimavano per espresso ordine dell’Ammiragliato. L’obiettivo, oramai, non era tanto di guadagnarsi l’agognata gloria marziale, ma di riuscire a sopravvivere pur a costo della fuga. La notte fra il 27 e il 28 marzo Porter dava infine fondo al suo ingegno, esibendosi nell’ultimo stratagemma: inviava una lancia in mezzo alla baia con l’ordine di sparare dei fuochi artificiali, sperando che la Phoebe si accostasse per investigare scadendo così sottovento alla Essex, pronta dall’altro capo della rada a spiegare le vele al vento ed evadere da quello che stava per diventare un blocco navale a tutti gli effetti.
Il mattino del 28, tuttavia, gli americani dovevano constatare con loro estremo disappunto che Hillyar non si era lasciato ingannare e non si era mosso, mantenendosi risolutamente sopravvento alla Essex e pronto a intervenire. Alle 2 del pomeriggio il tempo volgeva però al peggio: con una brezza che rinforzava spirando da sud-sudest Porter decideva di cogliere l’occasione e tagliava i cavi delle ancore, spiegando le vele e decidendo di rischiare il tutto per tutto. Si trattava di una manovra azzardata dettata dalla disperazione, perché mettere tutte le vele al vento in condizioni meteomarine avverse sforzava gli alberi e i pennoni al limite della loro resistenza meccanica: e infatti sarebbe stato il vento a tradirlo, perché una violenta raffica subito investiva la Essex e spezzava di netto l’albero di gabbia che ricadeva, vela e manovre, sulla vela maestra.
La nave era azzoppata e a Porter non restava altro che dirigersi goffamente sotto costa e gettare l’ancora di rispetto. A questo punto la Phoebe e lo sloop Cherub entravano in azione, mentre la Essex Junior non avrebbe fatto nemmeno un tentativo di partecipare alla battaglia che si appressava, limitandosi ad arrendersi agli inglesi a cose fatte. Hillyar dimostrava allora tutta la sua perizia marinaresca e, nonostante i venti contrari, dopo due tentativi andati a vuoto riusciva a posizionarsi di poppa al nemico a una distanza di circa 250 iarde (228 m); quindi gettava l’ancora e tendeva uno spring da poppa al cavo dell’ancora, di modo che agendo sull’argano a forza di braccia l’equipaggio potesse far tonneggiare la Phoebe sino a rivolgere le murate contro un obiettivo che non poteva rispondere al fuoco se non con i due cannoni poppieri da 18 libbre. Nel tentativo di portarsi in posizione per rispondere al fuoco Porter imitava allora la stessa manovra.
Tuttavia, per due volte il cavo poppiero veniva assicurato al cavo dell’ancora e per due volte esso finiva tranciato dal tiro nemico. Nel pieno dell’azione di fuoco i forti venti avrebbero spinto Hillyar fuori posizione ancora una volta e nuovamente egli sarebbe riuscito a riguadagnare la poppa dell’avversario, orzando e mettendo la nave in panna a circa 1000 iarde (914 m) di distanza. Attorno alle 5.35 il vento che sino ad allora aveva disturbato l’azione inglese fatalmente cadeva; e la Phoebe, ben posizionata all’anca di dritta dell’Essex e fuori del raggio di tiro delle carronate, poteva infine aprire un fuoco micidiale. Per la successiva mezz’ora il tiro inglese avrebbe demolito sistematicamente la nave statunitense ormai inerme, tranciando manovre fisse e correnti, sfondando lo scafo e falciando gli uomini dell’equipaggio. I danni a vele e sartie erano tanto estesi che verso le 6, quando Porter avrebbe dato ordine di tagliare anche il cavo dell’ancora di rispetto e sfruttare una leggera brezza per andare alla deriva contro la Phoebe e tentare di abbordarla, l’Essex avrebbe scarrocciato pigramente dando agli inglesi tutto il tempo di scostarsi.
La battaglia era persa e l’esplosione di alcune riserve di munizioni sul ponte di coperta completava la rovina della nave statunitense, precipitando infine la resa: gli inglesi calavano allora una lancia e prendevano possesso dell’Essex, oramai ridotta a una distesa di sangue e corpi squarciati. Le perdite erano state pesantissime; a fronte di circa duecentosessanta uomini di equipaggio, gli americani registravano cinquantotto morti e sessantacinque feriti contro i quattro morti e i sette feriti della Phoebe. Porter, che aveva visto gli uomini cadere a mucchi accanto a sé, ma ne era uscito incolume, scoppiava in lacrime e in segno di resa offriva la propria spada a Hillyar, che cavallerescamente rifiutava. Nei giorni successivi, con l’arrivo dei rinforzi britannici, tutti i prigionieri statunitensi sarebbero stati infine rilasciati sulla parola dietro l’impegno a non imbracciare più le armi e imbarcati sulla Essex Junior, cui veniva permesso di fare rotta verso casa.
Con una simile carneficina si concludeva la crociera dell’Essex nei mari del sud, del cui fallimento Porter avrebbe accusato negli anni a venire chiunque fuorché sé stesso: non risparmiando strali né al Segretario della Marina Jones, per aver voluto armare la nave quasi interamente con le carronate pur di massimizzarne il peso di bordata; né la perfidia di Hillyar per la presunta violazione della neutralità cilena, avendo egli ingaggiato infine battaglia al limitare della baia di Valparaíso. In un paese piegato dalla guerra, la capitale federale data alle fiamme e i commerci rovinati dal blocco navale britannico, la stoica e sanguinosa resistenza dell’Essex avrebbe soddisfatto l’intimo bisogno di eroi della nazione, permettendo a Porter non solo di scampare alla censura da parte di una corte marziale per la sua indisciplina e i suoi gravi errori di giudizio, ma di essere anzi acclamato dal pubblico e preso ad esempio. Le voci critiche sarebbero state tacitate dall’abile composizione delle sue memorie e dalla loro ancor più scrupolosa revisione. La versione dei fatti proposta dal capitano David Porter, seppur squisitamente interessata, si sarebbe infine imposta come narrazione ufficiale: consacrandolo eroe popolare, ma rendendo al contempo anche una misura di giustizia all’abnegazione dei tanti uomini caduti sotto il suo comando.
Bibliografia:
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Rieske, John S. (Ed.), Hunting the Essex. A Journal of the voyage of HMS Phoebe 1813-14 by Midshipman Allen Gardiner. Barnsley: Seaforth Publishing, 2013.
Tracy, Nicholas (Ed.), The Naval Chronicle. The Contemporary Record of the Royal Navy at War. Consolidated Edition in five Volumes. London: Chatham Publishing, 1998-1999.