L'impatto psicologico sugli americani del verdetto contro Trump
Un’analisi degli effetti del verdetto contro Trump attraverso alcuni fenomeni cognitivi, in particolare per quanto riguarda i giurati dei suoi futuri processi
La colpevolezza di Donald Trump emersa nel processo di New York avrà conseguenze certe, che tuttavia conosceremo solo l’11 luglio con la lettura della condanna. In quel momento sapremo quali saranno gli eventuali handicap oggettivi a cui sarà sottoposto il tycoon, come ad esempio il confinamento all’interno dello stato di New York o una molto più improbabile detenzione. La sfida degli analisti sta tuttavia nell’interpretazione delle future conseguenze del verdetto che esulano da questi aspetti, nonché nel peso che queste avranno nella gara in corso e nei suoi processi ancora aperti.
Se fino al giorno prima a titolare Donald Trump: criminale si rischiava una querela, ora non è più così e questo ha un impatto psicologico che va valutato molto bene. Il tycoon è ufficialmente un felon, è questo ha portato gli analisti in un territorio inesplorato della politica contemporanea, quella con internet e i social per capirci. Ciò che risulta più sfuggente e di difficile interpretazione è infatti l’effetto sugli americani dal punto di vista cognitivo di tutta questa vicenda. Soprattutto su alcuni americani.
Il framing
In comunicazione politica, fare framing significa fornire una cornice all’interno della quale incasellare le informazioni a disposizione, affinché il quadro che ne esce rispecchi la narrazione che si vuole trasmettere. Un esempio pratico: è più facile vendere un igienizzante dicendo che “rimuove il 99% dei batteri”, o dicendo che “ne lascia solo l’1%”? Ovviamente funziona meglio il primo claim, anche se a ben vedere i dati forniti sono gli stessi.
Il framing trumpiano si è concentrato nel minimizzare le ricadute del verdetto, sostenendo che gli altri processi non sono collegati a quello di New York. Al contempo i suoi supporter hanno agito in maniera molto intensa per rafforzare il backfire effect, fenomeno cognitivo che scatta quando nuove informazioni avverse alle nostre convinzioni invece di cambiarle le rinforzano. Si sprecano quindi i commentatori convinti che la condanna al tycoon avrà come unico effetto quello di serrare le fila dei suoi sostenitori, talvolta tentando di convincere gli indecisi che Trump è un perseguitato politico, piuttosto che un fedifrago, bugiardo e falsificatore di registri contabili come emerge dal processo.
Questo tipo di interpretazione è risultata molto in voga anche nella stampa italiana, vuoi per vicinanza politica al trumpismo di alcuni editori, vuoi per il bad news bias che porta i media a preferire ricostruzioni negative nell’ottica di attirare più click. In questo caso, l'interpretazione negativa è ovviamente dal punto di vista di noi europei, in quanto un eventuale governo Trump bis porterebbe a un disimpegno immediato nel teatro ucraino da parte americana, con un conseguente sovraimpegno europeo anche solo per mantenere lo status quo.
Il reframing
Il reframing, ovvero l’operazione di smontare il framing altrui per rimontare i pezzi secondo un’altra narrazione, sostiene che inevitabilmente una condanna criminale sarebbe una macchia che l’elettorato moderato, cruciale per la vittoria, non potrà ignorare. Ciò che molta stampa sottovaluta, soprattutto in Italia, è che Trump non ha alcuna necessità di compattare i suoi sostenitori, già di per sé inclini al fanatismo e al backfire effect: quelli sono voti che non cambieranno mai bandiera nemmeno di fronte a prove oggettive, figuriamoci in tempo utile.
Il terreno di gioco non è quindi in chi non cambia idea nemmeno sotto tortura, ma nell’elettorato mobile. In particolare, quei conservatori moderati che hanno continuato a votare Nikky Haley primaria dopo primaria nonostante si fosse già ritirata dalla gara, lanciando un segnale che non può essere ignorato. Essi rappresentano lo zoccolo duro dei repubblicani vecchio stampo senza i quali Trump non ha speranze.
Se in generale l’effetto di framing e reframing sui cittadini americani c’è, in un gruppo ristrettissimo di essi è amplificato: si tratta di chi farà parte di una giuria nei prossimi processi contro Trump.
Gli effetti sulle giurie
Anche se da un punto di vista tecnico è ineccepibile sostenere che questo verdetto non è collegato con quelli futuri, nella pratica le persone che comporranno le giurie di quei processi ne sono state esposte e possono essere soggette a fenomeni cognitivi correlati.
Il principale è senza ombra di dubbio il bandwagon effect, ovvero la tendenza a uniformare i propri comportamenti a quelli di altre persone che si trovano o si sono trovate nella stessa situazione. La giuria che ha condannato Donald Trump era composta da pionieri, senza alcun precedente da prendere come riferimento. Considerando la vendicatività esplicita del tycoon, va dato loro atto di aver sbloccato con innegabile coraggio quello che per molti nella loro situazione avrebbe potuto considerare un tabù: condannare un ex Presidente, con tutte le possibili conseguenze del caso. Le future giurie non si troveranno mai nella stessa situazione, avranno sempre un confortante precedente per superare questo blocco mentale.
Altro fenomeno è l’attribute substitution, il processo psicologico secondo cui un individuo che si trova a dover prendere una decisione su una materia complessa tende ad applicare scorciatoie mentali per semplificare la scelta. A questo si collega anche il Semmelweis reflex, ovvero la tendenza a rigettare nuove evidenze che contraddicono un precedente paradigma già formatosi nella nostra mente. L’abbinata di questi due fenomeni cognitivi rende possibile che alcuni giurati si trovino a essere influenzati dal verdetto di condanna di New York, anche a livello inconscio, pre-giudicando Trump in base al suo passato criminale e trovando oneroso a livello mentale cambiare questa convinzione, anche di fronte a nuove prove.
C’è poi l’illusory truth effect, un fenomeno cognitivo tra i più sfruttati proprio da Donald Trump. Si tratta della tendenza a credere che un’informazione falsa sia vera se è stata ripetuta numerose volte. Lo vediamo però in una sua variante. L’informazione di partenza è vera, non falsa, ma se ne omette una parte: Trump è un criminale, in merito al falso in bilancio. Omettendo la seconda parte e ripetendo in ogni dove questo concetto lo si fissa frastagliandone i contorni: Trump è un criminale, punto.
Se aggiungiamo l’halo effect, bias secondo cui la percezione di un tratto di personalità di una persona influenza la percezione che abbiamo anche degli altri suoi tratti, l’illusory truth effect amplifica il suo effetto in maniera esponenziale, finendo per traslare il concetto – Trump è un criminale – dalla sua nonchalance nel falsificare i libri contabili ad altri aspetti della sua persona, legati ai processi in corso.
Questi sono solo alcuni esempi. Purtroppo, l’analisi politica dal punto di vista cognitivo è spesso sottovalutata dai media, relegata più che altro a materia per spin doctor.
E avvocati, in questo caso.