La crisi delle humanities nelle università americane
Che impatto hanno i tagli alle discipline umanistiche e perché queste materie sono ancora importanti?
Alcuni giorni fa, un’inchiesta del Washington Post1 ha evidenziato come, da diversi anni, il sistema scolastico americano sia sempre più sottoposto all’intervento degli Stati nella definizione dei curriculum di scuole e università. Una tendenza che coinvolge sia gli stati Repubblicani che quelli Democratici, ma in modo opposto: i primi cercano di impedire che le scuole affrontino tematiche come il razzismo, la sessualità o l’identità di genere, mentre i secondi spingono per una maggiore presenza di questi argomenti nei programmi di studio. Questa è solo l’ultimo dei tanti cambiamenti che ha coinvolto il sistema scolastico americano in questi anni. Se qui, però, si può notare una chiara differenza ideologica tra i due partiti, non è sempre questo il caso. A volte, le logiche che spingono Repubblicani e Democratici verso certe scelte si rivelano molto simili, e lo sono ancora di più nei risultati che provocano.
Un chiaro esempio di questo fenomeno è la recente crisi delle materie umanistiche. Il tema della “crisi” è quasi un luogo comune per queste materie: anche in Italia se ne parla spesso, in particolare quando si dibatte sull’importanza del liceo classico e dell’insegnamento del latino e del greco. Fino a 15 anni fa, molti commentatori ritenevano questa retorica catastrofista ed esagerata, incapace di comprendere i cambiamenti avvenuti nel sistema educativo dagli anni Quaranta in poi2. La crisi finanziaria del 2008 e le politiche che l’hanno seguita hanno però portato a una crisi vera, che negli ultimi anni è emersa anche agli occhi del grande pubblico.
Di cosa si tratta e perché è importante? In seguito alla recessione del 2007-2008, le università americane subirono tutte dei tagli drastici nei finanziamenti statali. I tagli ebbero un impatto diretto sui dipartimenti, con il licenziamento di professori e ricercatori, la riduzione dei programmi di studio e, in certi casi, la chiusura di interi dipartimenti. Queste decisioni, però, non colpirono allo stesso modo tutte le discipline. L’effetto maggiore, infatti, si sentì nelle materie umanistiche, percepite da molti legislatori di entrambi i partiti come inutili per il mercato del lavoro rispetto alle materie STEM (science, technology, engineering and mathematics). I tagli non avvennero in silenzio, ma furono accompagnati da una costante retorica da parte della politica e delle amministrazioni universitarie che scoraggiava l’iscrizione a lauree in storia, letteratura o arte, favorendo invece materie come informatica o finanza.3
In una situazione economica complicata come quella seguita alla crisi del 2008, le nuove matricole, dovendo scegliere dove iscriversi, non poterono che essere influenzate da questo clima. Questo provocò quindi un circolo vizioso: gli studenti, spaventati dalle prospettive lavorative offerte dalle humanities, diminuirono le iscrizioni a questi dipartimenti; ciò permise ad amministratori e politici di giustificare ulteriori tagli, peggiorando a loro volta la qualità dell’insegnamento in questi dipartimenti e rendendoli ancora meno attrattivi per i nuovi studenti. Per dare un’idea, nel 2023 il budget del National Endowment for the Humanities (l’agenzia nazionale che finanzia la ricerca per le materie umanistiche) era solo il 2% di quello del suo corrispondente scientifico, la National Science Foundation, in un rapporto di 207 milioni di dollari contro 9,88 miliardi.4
Questo processo continua ancora oggi, mettendo a rischio non solo l’insegnamento di queste materie a livello universitario, ma tutto il sistema che si basa su di esso. Meno cattedre e studenti di storia o inglese significano infatti meno insegnanti per le scuole secondarie, meno ricerca disponibile per chi fa divulgazione o lavora per l’industria culturale (dai podcaster agli scrittori di serie tv), ma anche meno corsi per chi volesse allargare le proprie conoscenze alle humanities pur occupandosi di altre discipline. Chi accusa i dipartimenti umanistici di attirare pochi iscritti spesso non considera, infatti, il servizio che questi offrono anche agli studenti di altre materie: ingegneri, informatici e medici, pur specializzandosi nei loro campi, hanno bisogno di corsi che integrino la loro preparazione scientifica con le soft skill che solo lo studio degli esseri umani può dare.
La necessità che le materie umanistiche restino a disposizione di tutti gli studenti è solo una delle risposte che i loro difensori offrono ai propri detrattori. A questa si aggiungono anche considerazioni economiche e sociali. Innanzitutto, statistiche alla mano, le humanities non risultano poco remunerative come viene raccontato, se paragonate alle cosiddette scienze dure o alle scienze sociali. Nel 2018, per esempio, i laureati nelle materie umanistiche avevano un reddito medio più o meno simile a quello dei laureati in biologia o business, mentre studi più recenti mostrano come i laureati magistrali in storia abbiano un tasso di disoccupazione minore di quelli in economia e stipendi poco inferiori.5 Se, come ha affermato a dicembre il Segretario dell’istruzione Miguel Cardona, gli studenti «dovrebbero avere accesso a un'istruzione che sia in linea con le richieste dell'industria»6, le materie umanistiche sembrano un’opportunità buona come le altre.
Un altro punto che viene sottolineato da accademici e studenti, inoltre, riguarda l’effettiva “utilità” di queste materie per la società. Abbiamo già accennato a come queste siano presenti anche nei programmi STEM e di scienze sociali e a quanto siano necessarie per l’esistenza del settore culturale, ma il loro ruolo non si ferma qui. In un recente articolo per Foreign Policy,7 lo storico Bret Devereaux, famoso per il suo blog A Collection of Unmitigated Pedantry,8 ha evidenziato l’importanza delle humanities, e della storia in particolare, per la sicurezza nazionale. In un mondo che richiede un confronto costante con altre società, conoscere la loro storia e, più in generale, essere abituati all’incontro con culture diverse è necessario per sviluppare politiche e strategie efficaci.
Per concludere, sempre Devereaux, sul suo blog, ci offre una riflessione sull’importanza delle humanities.9 Oggi la scienza ci permette di avere strumenti eccezionali, con i quali abbiamo potuto e possiamo ancora affrontare problemi enormi: ne sono un esempio i vaccini contro il COVID-19, gli studi e le tecnologie sviluppate per il cambiamento climatico, oltre che le costanti innovazioni dell’informatica e dell’ingegneria. Le potenzialità di questi strumenti, però, non vengono ancora sfruttate al massimo, per problemi dovuti non alle scienze in sé, ma ai nostri leader e a noi stessi. Trascurare le materie umanistiche significa togliere a chi ha potere decisionale le abilità necessarie per guidare le persone nell’affrontare i problemi del nostro mondo. Allo stesso tempo, restringere l’insegnamento di queste materie significa escludere ai cittadini la flessibilità e le conoscenze necessarie per ragionare e discutere su argomenti al di fuori delle proprie specifiche sfere di competenza.
Dovremo aspettare i prossimi anni per vedere se questi appelli a difesa delle humanities avranno effetto, e quali saranno state, intanto, le conseguenze della crisi attuale. Nel frattempo, sarebbe ora di guardarci intorno anche noi, provare a comprendere se e quanto questi problemi colpiscano la scuola e l’università italiane, e attivarci per migliorare le cose.