L'insospettabile Vermont
Lo Stato più democratico degli USA si presenta all'esterno come una liberal utopia dove la cannabis è legale e i progressisti vivono in armonia tra loro, ma nasconde un malessere taciuto e incompreso.
Il Vermont è uno stato che amo. Se lo spirito della libertà dovesse sfiorire in altre parti dell'Unione, e il sostegno alle nostre istituzioni dovesse languire, tutto potrebbe essere compensato dalla generosa riserva di libertà custodita dal popolo di questo piccolo e coraggioso stato chiamato Vermont.
Calvin Coolidge, 30° presidente degli Stati Uniti d’America, “Brave Little State of Vermont Speech”
Blue States, Red States, Swing States. Nel vocabolario delle elezioni americane questi termini sono divenuti ricorrenti nel Terzo millennio. Indicano un orientamento politico specifico: nella prima categoria, l’adesione totale e quasi incondizionata alla causa del Partito Democratico; nella seconda l’indissolubile tendenza conservatrice afferente il Partito Repubblicano; e nell’ultimo esempio una situazione di costante mutamento ed equilibrio dov’è complesso segnalare la prevalenza di un elettorato rispetto a un altro.
Il Vermont non appartiene alle ultime due tipologie. Se si esclude il District of Columbia, è lo Stato più democratico degli USA, «the bluest state in the nation», come dicono i giornalisti statunitensi. È lo Stato di Bernie Sanders e di Howard Dean, che abbiamo intervistato l’anno scorso, ma è anche lo Stato in cui le unioni civili e i matrimoni gay hanno fatto la loro comparsa con parecchi anni di anticipo rispetto agli altri. Il primo democratico eletto al Senato è stato Patrick Leahy nel 1974, ancora oggi in carica alla Camera alta del Congresso. Prima di lui, ci furono venti parlamentari provenienti dal Partito Repubblicano, la forza che ha dominato per più di un secolo la politica di questo piccolo Stato da cui sono provenuti i presidenti Chester Arthur e Calvin Coolidge.
Durante la Rivoluzione americana, il Vermont fu conteso dalla provincia di New York e da quella del New Hampshire, salvo poi ottenere l’indipendenza nel 1777 e fare il suo ingresso nell’Unione come quattordicesimo Stato il 4 marzo 1790. La svolta si concretizzò grazie alla fine del contenzioso territoriale con New York, risoltosi con la cessione – in cambio di un lauto compenso (trentamila dollari dell’epoca) – delle terre che oggi delimitano i confini del Vermont.
Tutti gli elementi superficiali suffragherebbero la tesi secondo cui questo piccolo Stato, il secondo più rurale e il penultimo per popolazione, sarebbe una sorta di liberal utopia, un luogo nel quale gli elettori democratici vivono in totale armonia tra di loro nel nome di un progressismo estremo. Analizzando, però, più in profondità la situazione politica al di là degli -ismi e conoscendo la storia dei partiti in Vermont il quadro è diverso da quello descritto. Non c’è, ad esempio, la cosiddetta trifecta, ovvero una supremazia assoluta da parte di un partito e che consisterebbe nel controllo delle due assemblee elettive (Camera e Senato) e dell’irrituale ufficio di governatore, irrituale poiché viene eletto ogni due anni.
Il Partito Democratico detiene la maggioranza in entrambe le camere dal 2005 e l’ultima trifecta risale al 2016. Dal 2017, il repubblicano Phil Scott è l’unico membro del GOP a ricoprire incarichi statali e federali di primo piano in Vermont. Nonostante qualche frizione di natura fiscale con le legislature democratiche, Scott si è mostrato una figura che, grazie soprattutto al suo carattere mite e schivo, è riuscita a unire progressisti e conservatori. Ha votato per Joe Biden alle ultime elezioni presidenziali ed è stato il primo governatore repubblicano degli Stati Uniti ad approvare l’uso della cannabis per uso ricreativo, ma dietro quest’apparente concordia di idee si cela anche un malessere che ha già infettato il resto del Paese e quel malessere è il razzismo. Latente, episodico, ma presente.
I gruppi estremisti
Secondo il Southern Poverty Law Center (SPLC), in Vermont tra il 2020 e il 2021 è stato individuato un solo gruppo di suprematisti bianchi, il Patriot Front, una diramazione più «teatrale» dell’organizzazione neofascista Vanguard America, da cui c’è stata una scissione dopo l’attentato di Charlottesville nel 2017.
Grazie alla sua propaganda e al martellante street marketing, il Patriot Front si è fatto notare anche nel Green Mountain State con cortei spontanei, manifesti, volantini e adesivi, spesso incollati sopra a quelli di Bernie Sanders.
Dal manifesto del Patriot Front:
L'identità americana fu qualcosa di unico forgiato nella lotta che i nostri antenati condussero per sopravvivere in questo nuovo continente. Essere un americano significa realizzare questa identità e condurre sulle proprie spalle la lotta a livello nazionale. Il titolo di americano non si ottiene semplicemente dalla nascita, ma da come si lavora e si realizza il potenziale di questa nascita.
Un africano, per esempio, può aver vissuto, lavorato e persino essere stato classificato come cittadino in America per secoli, eppure non è americano. Egli è, come probabilmente preferisce essere etichettato, un africano in America. La stessa regola si applica ad altri che non sono del ceppo fondatore del nostro popolo, così come a coloro che non condividono la coscienza comune che permea tutta la nostra maggiore civiltà e la diaspora europea.
Il rigurgito suprematista, secondo i dati, sembrerebbe in calo, ma si tratta di un’illusione dovuta alla pandemia. Negli anni scorsi in Vermont oltre al Patriot Front agiva anche il Movimento Nazionale Socialista, un’organizzazione neonazista, ma anche questi nomi si possono inserire in quell’elenco di elementi superficiali che costituiscono una visione fuorviante e, stavolta per definizione, estremizzata.
In Vermont, il 94,2% della popolazione è bianca. Gli afroamericani sono l’1,4%, mentre gli asiatico-americani rappresentano l’1,9%. La minoranza etnica più numerosa è quella ispanica, con il 2%. In un contesto dove non ci sono mai stati dei notevoli cambiamenti demografici, in che modo si può manifestare il razzismo? La matrice si potrebbe individuare in alcuni, significativi fatti di cronaca.
Cronaca di una comunità impaurita
La storia di Daniel Banyai è la storia di un eccentrico americano. Banyai nel 2017 acquistò un terreno a Pawlet, un minuscolo centro abitato di 1.000 abitanti nel sud-ovest del Vermont. Un anno dopo, in quell’area è sorto un poligono di tiro, lo Slate Ridge.
Banyai sostiene di essere un veterano, pur essendo stato arruolato per pochissimo tempo senza esperienza sul campo, e con questa premessa ha lanciato la sua attività, dei corsi di autodifesa, con una particolarità: erano illegali. Banyai non possiede nessuna licenza del comune (a parte quella per un garage) e i pochi residenti di Pawlet lo hanno evidenziato alle autorità, entrando in aspro conflitto col diretto interessato, che ha inoltre dichiarato sotto giuramento di non essersi intascato neppure un penny per queste consulenze approfondite.
Lo Stato l’ha obbligato a chiudere bottega, ma lui non si è arreso e ha presentato un ricorso alle corti, bocciato in ultima istanza dalla Corte Suprema del Vermont. Come conseguenza, è stato condannato a pagare 100 dollari di multa per ogni giorno di violazione: 46.600 dollari per 466 giorni.
Il verdetto è stato accolto positivamente dagli abitanti di Pawlet, terrorizzati all’idea di condividere il paese con un soggetto con così tante armi in giro e che si dice usasse sagome di uomini con tratti africani per sparare. Nella decisione della Corte, che nel caso ha preso le difese del Comune di Pawlet contro questo signore considerato dai suoi vicini un violento e maleducato truffatore, ha prevalso comunque un approccio più burocratico, evitando di toccare questioni delicate come il Secondo emendamento (a cui si è appellato Banyai) e il razzismo.
«Il proprietario – si legge nel verdetto – ha un passato di non conformità con le leggi, malgrado gli avvertimenti dei funzionari della città. Il poligono di tiro non autorizzato potrebbe interferire con l'uso e il godimento dei vicini della loro proprietà e i proiettili e i bossoli potrebbero danneggiare l'ambiente circostante».
L’inferno razzista
Questa corsa alle armi in Vermont si ricollega a un fatto di cronaca coevo. Nell’estate del 2020, Marissel Hernández-Romero, docente di spagnolo presso il dipartimento di studi Luso-Ispanici del Middlebury College, era arrivata alla fine del suo contratto triennale con l’università.
Tutti si aspettavano un suo messaggio di addio, ma nessuno avrebbe mai potuto prevedere che il suo allontanamento avrebbe scaturito un serio dibattito sul razzismo. Hernández-Romero nell’ultima email inviata agli studenti ha denunciato un «inferno razzista», scrivendo:
L’università spinge le persone di colore ad assimilare e accettare la loro cultura ostile e non sono interessati al fatto che queste persone possano crescere sul piano professionale, né tanto meno al loro benessere.
L'impegno del college per la diversità viene smentito dal clima reale che si vive nel campus. Non è sufficiente portare più diversità e implementare programmi come i Black Studies quando i professori neri se ne vanno perché non si sentono sicuri dentro al campus.
L’Università dice di sostenere il Dipartimento, il personale e gli studenti neri e tutte le persone di colore, ma allo stesso tempo c'è un forte gruppo all’interno della facoltà che combatte per difendere il proprio privilegio usando la scusa della libertà di parola.
L’esperienza negativa della professoressa, di origine portoricana, non si sarebbe fermata tuttavia all’università. Il suo racconto continua infatti con una sequenza di eventi indipendenti dall’atmosfera del college dove insegnava.
La prima volta nei pressi di un negozio un uomo bianco l’avrebbe chiamata ne**a (sic!), mentre in una farmacia una dipendente l’avrebbe osservata con sospetto. Un’altra volta, a bordo di un’automobile noleggiata, si sarebbe trovata pedinata senza motivo da una pattuglia della polizia locale. L’episodio più eclatante si è verificato in un ristorante, in compagnia di un’altra collega. Qui, un uomo bianco le ha tolto dal tavolo l’insalata che stava mangiando per pranzo e l’ha gettata con violenza nella spazzatura.
Oggi Marissel Hernández-Romero è uscita da quell’incubo e si trova alla Alfred University di New York, nella metropoli per eccellenza, in un’altra liberal utopia. E forse, allora, il Vermont non è una liberal utopia. Burlington non è Portland, Montpelier non è Seattle, Essex non è Detroit. Towns, non cities.
Se l’incomunicabilità tra i cittadini della campagna americana e quelli delle grandi città ha permesso a politici conservatori come Donald Trump di vincere, come si spiegherebbe l’eccezione Vermont, dove un personaggio come il Tycoon ha la stessa fama degli albigesi nella Francia del XIII secolo?
Il collegamento logico tra le preferenze del corpo elettorale – dunque i risultati elettorali che premiano i democratici più tolleranti e più inclusivi – e la vita di campagna non è immediato. Questo malessere taciuto, il razzismo, che si crede sia stato definitivamente sconfitto nell’America degli anni Sessanta con le leggi sui diritti civili, quasi come una sorta di fine della storia che si richiama a Francis Fukuyama, sopravvive, prolifera e si intreccia con altre laceranti piaghe sociali che destabilizzano anche la più stabile e virtuosa delle società. E l’insospettabile Vermont, la prima colonia britannica ad abolire la schiavitù nel 1777, ne è la prova.
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