Ce l’ha fatta di nuovo. Senza scadere nelle affrettate sovrastime di una vittoria chiara ma non plebiscitaria che si trovano e si sono susseguite in questi giorni, è evidente che la risalita al potere di Donald Trump porterà un uomo diverso alla Casa Bianca, con maggior potere e chiarezza di intenti rispetto al 2016. Potere nel partito innanzitutto, perché la nuova, netta vittoria e la riconquista del Senato hanno placato qualsiasi opposizione interna - quantomeno per ora. Di membri del Congresso non allineati ideologicamente a Trump ce ne sono ancora, certo, ma sono molti meno rispetto al 2016 ed è molto difficile che al momento, dopo aver avuto dimostrazione della sua forza elettorale, opporranno chissà quale ostruzionismo. Le basi per indocilire le Corti erano già state poste durante il primo mandato, con la mossa strategica dall’impatto forse più profondo della sua amministrazione e dell’oramai in declino Mitch McConnell. Così, almeno sulla carta, i checks and balances che pure nel 2016 erano in piedi, ora sembrano molto più deboli.
C’è poi il fattore psicologico: soprattutto per un personaggio dall’ego particolare, alla ricerca costante di lodi, conferme, celebrazioni e complimenti, una vittoria netta può spingere ancor di più l’ex-neo-presidente a cercare di aggirare le regole (o pretendere di poterlo fare, lamentandosi a reti unificate) nel tentativo di governare in modo più diretto. In aggiunta, d’altronde, come ricorda Ron Elving di NPR, anche mettendo da parte il focus su Trump, il secondo mandato ha sempre giocato un ruolo particolare per i presidenti. La rielezione è il momento di cambiare le cose sul serio, di lasciare il segno nella storia, o almeno questa sembra essere l’interpretazione della Casa Bianca. È vero che queste intenzioni non si sono quasi mai realizzate come erano state prefissate e che anzi, con pochissime eccezioni, il secondo mandato si è spesso tramutato in una delusione in primis per il presidente in carica; ma è anche vero che siamo di fronte al primo caso di secondo mandato non adiacente dopo Grover Cleveland, e soprattutto che è la prima elezione davvero chiara nella storia politica di Donald Trump, avendo vinto anche il voto popolare. Sono due fattori che mettono in dubbio la possibilità di fare affidamento su serie storiche a fini previsionali. Stavolta, infatti, Trump si troverà al potere con notevole credibilità e legittimazione, elementi che gli mancavano quasi completamente otto anni fa e che giocheranno (forse) un ruolo importante sul palcoscenico globale. Insomma, uno scenario “da primo mandato” secondo i canoni tradizionali.
Ma ciò su cui potrà soprattutto contare sarà una rete di conoscenze fidate a Washington, che nel 2016 non aveva. In questi otto anni abbiamo assistito a un processo di riconversione del partito repubblicano, dei gruppi di interesse e dei think tank conservatori che renderanno il lavoro molto più semplice al neoeletto ex presidente. Il problema del primo Trump era che, da neofita della politica, non aveva nessuno su cui fare affidamento nella capitale che si pregiava di non aver mai frequentato. Ecco allora che si ritrovò un vicepresidente “tradizionale” come Mike Pence e una serie di segretari (ministri) che uno dopo l’altro gli misero i bastoni fra le ruote. Ripulire la swamp è complicato se coloro che a ciò sono deputati ne sono essi stessi parte. Stavolta Trump può invece contare innanzitutto su un vicepresidente, J.D. Vance, che non solo abbraccia il trumpismo ma che è in contatto con buona parte delle sottoculture di destra e perciò è stato capace di dare uno sfondo teorico alla spesso confusionaria retorica del futuro presidente. Inoltre, organizzazioni come il Conservative Partnership Institute, da cui dipende una rete crescente di think tank e gruppi di pressione conservatori fondati negli ultimi quattro anni, o la stessa Heritage Foundation, autrice del famoso Project 2025 (ne abbiamo parlato qui), hanno svolto l’importantissimo ruolo di formazione del nuovo personale politicizzato che idealmente dovrebbe infiltrarsi nelle agenzie per sradicare la burocrazia federale dall’interno. Ad esempio, l’American Accountability Foundation, organizzazione nella sfera di influenza del CPI, ha indagato le posizioni politiche di migliaia di dipendenti pubblici stilando nientemeno che liste di epurazione, mentre la fondazione American Moment forma giovani conservatori per renderli membri dello staff di politici repubblicani e, più tardi, forse, funzionari governativi. Lo stesso CPI, al cui interno lavora Mark Meadows, ultimo capo di gabinetto della prima amministrazione Trump, dispone di un’accademia e di un programma di stage che promette di fornire le competenze per «restaurare l’America».
Insomma, siamo di fronte a un Trump più combattivo, più sicuro di sé, con molta voglia di fare e con l’infrastruttura per portare a termine il lavoro. I tentativi di arraffare potere per sé sono già iniziati con la sua richiesta al Senato di permettere i recess appointments, nomine temporanee senza bisogno di approvazione della Camera alta, mentre la lista di futuri ministri e direttori di agenzie comunica chiaramente che la lealtà personale sarà ancora il fattore più importante. Staremo a vedere.