Un patrimonio sotto attacco
I parchi nazionali fanno bene all’economia, ma un’ondata di licenziamenti e la possibile vendita di alcune proprietà federali minaccia l’efficacia del National Park Service

I parchi nazionali fanno bene all’economia statunitense, ma questo non basterà a proteggerli dalla raffica di licenziamenti e tagli alle spese federali al vaglio dell’amministrazione Trump. A metà febbraio, il Dipartimento degli Interni ha licenziato circa mille dipendenti del National Park Service come parte del piano varato da Elon Musk e dal Dipartimento dell’Efficienza Governativa per ottimizzare la forza lavoro federale. Altri settecento impiegati, invece, hanno deciso di presentare le dimissioni e di accettare l’offerta fork in the road proposta dall’amministrazione, per cui dovrebbero continuare a percepire lo stipendio fino a settembre nonostante l’immediata interruzione del rapporto di lavoro. In caso di rifiuto, avrebbero comunque rischiato il posto.
A causa dei tagli al personale, centinaia di parchi nazionali rischiano di rimanere sotto organico con l’arrivo della stagione estiva. In certi casi, le conseguenze dei licenziamenti sono state subito evidenti. Ad esempio il Gettysburg National Military Park, in Pennsylvania, ha dovuto annullare molte delle visite guidate già programmate, mentre al Grand Canyon con il licenziamento di quattro dipendenti che operavano all’ingresso Sud, utilizzato da circa il 90 per cento dei suoi visitatori annuali, la coda è raddoppiata nell’arco di una settimana. Per evitare che il sistema si ingolfi, il segretario degli Interni Doug Burgum ha prontamente annunciato che verranno assunti oltre cinquemila nuovi ranger con contratto stagionale. Stando a una circolare interna del National Park Service, pare che l’agenzia intenda assumere circa 7.700 dipendenti durante la stagione estiva. Per la National Parks Conservation Association, comunque, sarà difficile riuscire a coprire le nuove posizioni temporanee prima dell’arrivo dell’estate, e in ogni caso i dipendenti stagionali non potranno sostituire gli impiegati con anni di esperienza full-time alle spalle già persi dal sistema.
A inizio marzo, in tutto il Paese, migliaia di persone si sono radunate nei parchi nazionali per protestare contro i licenziamenti di massa. I Resistance Rangers, un’organizzazione fondata da ex dipendenti del National Park Service non più in servizio, licenziati o in pensione, hanno provato a organizzare manifestazioni simultanee in ognuno dei 433 siti del sistema, invitando tutti a mobilitarsi non solo contro i tagli al personale ma anche contro il rischio di possibili minacce dirette ai monumenti nazionali. Le proteste hanno coinvolto 169 siti nell’arco di tre giorni, da luoghi popolari come il parco nazionale di Yosemite, in California, a posti meno noti come l’Effigy Mounds National Monument in Iowa, passando per il Gateway Arch di St. Louis, in Missouri.
Tra i pericoli segnalati dai Resistance Rangers e dalla National Parks Conservation Association rientra anche l’ipotesi che Donald Trump possa decidere di privare dello status di monumenti nazionali, e della protezione che esso comporta, un vasto numero di siti. Si tratta di una teoria non del tutto infondata: un comunicato diffuso dalla Casa Bianca il 14 marzo evidenziava la volontà del presidente di depennare dalla lista dei monumenti nazionali i siti individuati da Joe Biden che «sottraggono vaste porzioni di terra allo sviluppo economico e alla produzione energetica». Tra gli ultimi due spiccano in particolare i siti di Chuckwalla e Sáttítla Highlands, in California, proclamati monumenti nazionali da Biden poche settimane prima della sua uscita di scena. La frase è stata cancellata dal comunicato un paio d’ore dopo la pubblicazione, ma la dichiarazione capeggia ancora in un post diffuso su X dall’account di risposta rapida della Casa Bianca.
A peggiorare la situazione è il fatto che alcuni dei centri visitatori (gli iconici visitor center) e dei musei che fanno parte del National Park Service potrebbero finire anche nel mirino della General Services Administration, che sta valutando quali edifici mettere in vendita per sfoltire l’elenco delle proprietà federali con l’obiettivo dichiarato di far risparmiare milioni di dollari ai contribuenti. Nella prima lista degli edifici “vacanti” o “sottoutilizzati” diffusa dall’agenzia, a inizio marzo, erano stati inclusi ben 34 siti appartenenti al sistema dei parchi nazionali, tra cui otto visitor center, alcuni uffici e diversi musei contenenti manufatti rari. Per ironia della sorte, tra i siti segnalati rientrava anche il Klondike Gold Rush National Historical Park di Seattle, un museo che racconta il lavoro dei cercatori d’oro, compreso Frederick Trump, nonno paterno del Presidente. La lista diffusa dalla General Services Administration è stata subito ridimensionata e limitata a una manciata di voci: adesso, cercando sul web la pagina dedicata agli asset di cui l’agenzia intende disfarsi al più presto, tra parentesi svetta la scritta “coming soon”.
In generale, cresce il timore che la nuova amministrazione possa ridurre il grado di tutela di aree e siti che costituiscono una parte fondamentale del patrimonio ambientale, storico e culturale statunitense. Il fatto che l’ondata di licenziamenti si sia abbattuta anche su altri enti come il Forest Service e il Fish and Wildlife Service fa temere il rischio di una minor protezione di fauna, flora e habitat naturali. La carenza di personale, tra l’altro, potrebbe limitare il raggio d’azione di queste agenzie rispetto alla tutela delle specie a rischio di estinzione. Ad esempio, la direttrice esecutiva del Mojave Desert Land Trust, Kelly Herbinson, ha denunciato la possibilità che i licenziamenti accelerino la definitiva scomparsa delle tartarughe del deserto che popolano il Joshua Tree National Park, le cui vite sono sempre più minacciate dalla crisi climatica, dalla scomparsa del loro habitat naturale e dagli urti dei veicoli.
Oltre a tutelare il patrimonio naturale americano e a permettere a tutti di fruirne, il sistema dei parchi nazionali è anche una fonte incredibile di guadagno. Solo nel 2023 il sistema dei parchi nazionali ha garantito all’economia statunitense un contributo di 55,6 miliardi di dollari, supportando un totale di 415.400 posti di lavoro in tutto il Paese. I visitatori che ogni giorno si recano nei 63 parchi e nelle centinaia di siti storici gestiti dal National Park Service sono una risorsa preziosa per le comunità locali: affollano hotel, motel e pensioni, riempiono bar e ristoranti, acquistano nei supermercati e nei negozi. Fanno girare l’economia. Sarebbe impensabile non porre questi benefici sull’altro piatto della bilancia nel momento in cui si valutano i costi che la nazione dovrebbe sostenere per contribuire alla tenuta del servizio, anche e proprio in termini economici.
L’approccio dell’amministrazione verso questa risorsa preziosa non si discosta però dal generale oscurantismo adottato per le tematiche ambientali, ben rappresentato dalla scelta di rimuovere ogni riferimento alla crisi climatica dai siti governativi. Al National Park Service, come riporta il New York Times, è stato addirittura impedito di pubblicizzare gli ottimi risultati registrati nel 2024. I dati sono stati pubblicati sul sito dell’agenzia e possono essere forniti a chiunque ne faccia esplicita richiesta, ma l’amministrazione ha chiesto di evitarne la divulgazione sui social media, tramite comunicati stampa o altri avvisi. Eppure sarebbero degni di nota perché sono state rilevate 331,9 milioni di visite, il numero più alto dal 1904, anno in cui è iniziata la rilevazione. Una cifra in grado di battere il record raggiunto in occasione del centenario del National Park Service, nel 2016, quando le visite erano state 330 milioni.
Nel 1983 Wallace Stegner, storico e scrittore, aveva definito i parchi nazionali la migliore idea mai avuta dagli statunitensi. «Assolutamente americani, assolutamente democratici, ci riflettono al meglio piuttosto che al peggio», affermava. Nella sua massima continua a esserci un fondo di verità, perché il modo in cui questo patrimonio viene gestito e tutelato è uno specchio di come vanno le cose. I licenziamenti, la presunta volontà di declassare alcuni monumenti nazionali e la possibilità che alcuni siti vengano messi in vendita non sono buoni sintomi.
Sono un po' confusa: togliendo i benefici a livello ambientale e faunistico che non rientrano tra le preoccupazioni della nuova amministrazione, perché stanno facendo questi tagli se i parchi nazionali sono un'incredibile fonte di guadagno? La campagna di Trump non è tutta incentrata sull'economia e sull'arricchire il Paese? Quindi questa idea non è un controsenso? (Vabbè, come se qualcosa avesse senso con Trump).