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Chi vuole distruggere il Build Back Better Act?
Secondo il nuovo rapporto di ClimateVoice le principali aziende statunitensi vogliono far naufragare il piano d'azione sul clima
Da diverso tempo alcune tra le più influenti organizzazioni degli Stati Uniti e il G.O.P. stanno unendo le forze per contrastare il piano di investimenti previsto dal Build Back Better Act.
Il piano - ne avevamo già parlato su Greenbacks - sta mettendo a dura prova i Democratici che ancora non sono riusciti a trovare un accordo definitivo sui tagli necessari a ridurre il piano di investimenti per la lotta al cambiamento climatico da 3,5 trilioni a 2 trilioni.
E mentre i Democratici sono impegnati a risolvere i problemi in casa propria (nei vari tentativi di convincimento dei senatori Joe Manchin III e Kyrsten Sinema), un nuovo rapporto dell'organizzazione no-profit ClimateVoice, svela gli sforzi messi in atto dalle principali venti aziende statunitensi che hanno pubblicamente promesso di impegnarsi nella lotta alla crisi climatica per ostacolare l'approvazione del Build Back Better Act.
Coca-Cola, McDonald's, Nike, Pfizer: aziende che conosciamo soprattutto per lo scarso impegno nella riduzione delle emissioni prodotte nei loro processi di produzione e per essere state per decenni il volto del capitalismo americano.
Parliamoci chiaro, nessuno sano di mente, fino a qualche anno fa, avrebbe mai potuto pensare che, prima o poi, queste aziende avrebbero scelto di impegnarsi pubblicamente a fare fronte comune nella lotta al cambiamento climatico. Se non che, messe di fronte all'esigenza di ‘ripulirsi’ dopo anni di scelte insostenibili, ecco che magicamente, per effetto di semplicissime tecniche di green washing, si fa credere all'opinione pubblica che si è passati dalla parte dei buoni.
Senonché, il rapporto di ClimateVoice, realizzato in collaborazione con il think thank InfluenceMap, mette nero su bianco gli sforzi di sabotaggio del Build Back Better Act cui le venti multinazionali stanno contribuendo in atto negli ultimi mesi.
È sulla base di tre criteri di valutazione che ClimateVoice analizza le scelte politiche delle aziende sulla base delle loro dichiarazioni pubbliche: le società hanno davvero approvato il piano di investimenti verdi? E ancora, sono favorevoli alle disposizioni relative all'aumento delle tasse necessarie a finanziare quella parte del Build Back Better Act? Infine, si sono opposte agli sforzi dei gruppi di pressione notoriamente contrari alla sua approvazione?
Nessuna delle società analizzate ha soddisfatto contemporaneamente i tre criteri e, addirittura dodici di queste, hanno dimostrato di aver fallito su tutti i fronti. Alcuni dei colossi analizzati hanno invece contribuito moderatamente agli sforzi dei Democratici, tra queste Amazon, Apple, Exelon, Facebook, Microsoft, Netflix, Salesforce e Walmart.
Quasi tutte le società hanno avuto costanti contatti con gruppi di pressione e associazioni di categoria che già da diverso tempo si oppongono al pacchetto di investimenti voluto da Biden. La Camera di Commercio degli Stati Uniti, il Business Roundtable e la National Association of Manufacturers sono tra i principali gruppi ad essersi opposti al disegno di legge. Già ad agosto, la Camera di Commercio degli Stati Uniti ha iniziato a lavorare alla formazione di una coalizione contro la Build Back Better Agenda di Biden, chiamando a raccolta chiunque volesse contrastare il piano, al tempo ancora in fase di definizione.
Uno sforzo democraticamente lecito che mostra però quanto sia fragile l'impegno congiunto dei principali inquinatori statunitensi ad assumersi concretamente le proprie responsabilità, in un momento storico in cui il 73% degli statunitensi ritiene che il proprio Paese debba introdurre una carbon-tax per contrastare le aziende più inquinanti.
Il legame tra queste società e la lotta al Build Back Better Act trova la sua ragion d'esser nel filo che le lega ai gruppi di pressione e alle associazioni di categoria sopramenzionate. A titolo di esempio, Johnson&Johnson, una delle aziende analizzate da ClimateVoice, è uno dei principali membri del consiglio di amministrazione del National Association of Manufacturers, così come gli amministratori delegati di Apple e Walmart sono tra i membri del board del Business Roundtable.
La coalizione guidata da questi tre gruppi si può spiegare prevalentemente con riferimento alla lotta all'aumento delle tasse previsto dal piano, che imporrebbe un ritorno ad un sistema ad aliquota progressiva, con un'aliquota massima del 26,5% applicabile ad aziende che presentano un reddito aziendale di almeno 5 milioni di dollari (e ulteriori misure che colpirebbero i profitti realizzati dalle società all'estero).
Secondo Joshua Bolten, presidente e amministratore delegato di Business Roundtable, "il Congresso ha inutilmente legato l'azione per il clima con 1 trilione di dollari di aumenti delle tasse sui creatori di posti di lavoro, a cui ci opponiamo fermamente, e trilioni di spese non legate al clima".
È comprensibile quindi che la principale critica mossa ai Democratici si riferisca ai tentativi di superare l'ostruzionismo del Senato portando avanti un piano che fa riferimento all'intera agenda della Casa Bianca, stipata (o costipata), in un unico disegno di legge. Ma è anche vero che il Business Roundtable e gli altri gruppi di pressione nelle loro pubblicità non fanno alcuna distinzione tra le proposte relative alla crisi climatica e le misure fiscali, facendo praticamente di tutta l'erba un fascio. E se davvero volessero contribuire all'individuazione di un piano adeguato di ripresa, sarebbe politicamente sensato operare una scelta tra le due misure, sostenendo ad esempio soluzioni di spesa alternative per contrastare l'emergenza climatica.
La stessa ipocrisia appartiene alle società menzionate, le stesse che quattro anni fa, di fronte alla decisione del Presidente Trump di portare gli Stati Uniti fuori dall'accordo di Parigi, hanno deciso immediatamente di aderire all'America's Pledge, un patto per ridurre l'inquinamento ambientale di oltre il 26% entro il 2025 (rispetto ai livelli del 2005).
In quell'occasione il CEO di Apple Tim Cook, ha pubblicamente affermato di aver personalmente implorato Trump di desistere dall'impresa. Eppure Apple è una delle principali aziende a sostenere l'azione di opposizione del Business Roundtable che negli ultimi due mesi ha promosso spot televisivi e radiofonici e attività di lobbying mirate a contrastare gli sforzi dei Democratici; a questi si aggiungono 150.000 dollari in annunci pubblicitari su Facebook, rivolti soprattutto agli stati viola.
Di fronte a tutte le dichiarazioni rilasciate dalle diverse aziende, chiamate da Grist a pronunciarsi sul report di ClimateVoice, rimane un solo elemento: nessuna di loro ha lasciato o anche solo pubblicamente affermato di voler lasciare il consiglio di amministrazione di Business Roundtable, continuando di fatto a finanziare la lotta al Build Back Better Act attraverso le loro quote associative.
Sono chiaramente lontani i tempi della Conferenza di Rio, quando le grandi aziende ancora si arroccavano dietro a campagne sul negazionismo climatico, finanziate più o meno segretamente. Quel che oggi rimane è, però, un impegno solo sostanziale, un supporto ipotetico e generico alla lotta al cambiamento climatico che non tiene conto dell'entità del fenomeno stesso e della sua gravità, nonostante le dichiarazioni pubbliche vadano in direzione contraria.
Ma tra il dire e il fare, in questo caso, ci sono di mezzo le vite di miliardi di persone e l'ultima vera possibilità di far passare un disegno di legge che, solamente nella sua integralità, può consentire un vero cambiamento.