
Spesso, quando una persona mi chiede perché ho fatto qualcosa, la mia prima risposta è “Perché no?”.
A volte è un ottimo modo per tagliare il discorso senza dover rispondere “saranno affari miei”. In altre occasioni, però, serve a prendere tempo, perché non sempre si sa bene perché si fa qualcosa.
Perché è soddisfacente? Sì, dai, abbastanza.
Perché mi diverto? Be’, ti dirò, dipende.
Perché è importante? Oddio, importante… Importante per chi?
Ecco, io qui un po’ vorrei rispondere “Perché no?” alla domanda “Perché l’America?”. È una lunga storia, sono affari miei, se ve la raccontassi non capireste. Però ho paura che rispondendo così starei prendendo tempo anche stavolta, che lo farei per non ragionare su come sono finito qui e per rimandare una domanda che io stesso mi pongo. E quindi approfitto anch’io di questo carteggio di terapia collettiva per provare a darmi una risposta – anche perché poi me la segno su un post-it e me la rileggo prima del prossimo articolo su Elon Musk.
Chi mi conosce, sa che fin da piccolo ho sempre amato la storia. È un’ossessione che è partita alle elementari, prima con Il Tuo Primo Libro della Storia della Larus (regalatelo ai vostri bambini), poi con Age of Empires e i Lego Castle. Mi piaceva tutta, ma il mio chiodo fisso era il Medioevo. Nei miei sogni, un giorno avrei fatto il professore e quelle storie di cavalieri, castelli, contadini e mercanti le avrei raccontate io ad altri bambini come me. Per anni, questo è stato il mio percorso, finché la strada non ha iniziato a deviare.
Tutti conosciamo ormai quella “maledizione cinese”1 che dice: “Possa tu vivere in tempi interessanti!”. Di certo l'ultimo decennio lo è stato. Da studente liceale e poi universitario, ho assistito in rapida successione alle guerre in Medio Oriente e in Ucraina, la Brexit, il Covid, l’elezione di Trump e quella di Biden. Vivere in tempi come questi, per me, era come attraversare la storia “in the making”, mentre veniva fatta.
E cosa dovrebbe fare uno storico nel frattempo? Restare a guardare, cercando di memorizzare le proprie impressioni per quando le dovrà raccontare ai futuri alunni?
Io ero indeciso, perché sapevo che studiare e insegnare la storia avesse valore per comprendere il presente, ma non riuscivo a sopportare l’idea di non fare nulla per cambiare quel presente prima che diventasse storia. All’inizio ho cercato un compromesso. Ho continuato nel mio percorso con l’università, ma allo stesso tempo partecipavo alle attività di un’associazione studentesca, che faceva divulgazione sulle relazioni internazionali. Certo, a volte invidiavo i miei nuovi amici, visto che sarebbero andati a lavorare a Bruxelles per occuparsi degli stessi argomenti di cui parlavamo ogni giorno. Però la mia strada era sempre stata la stessa, fin da piccolo, e alla fine una scelta bisognava pur farla.
Poi è arrivato il 2022. Io in Ucraina non ho parenti, all’epoca non avevo quasi nessun amico, né l’avevo mai visitata. Ma otto anni prima, nel 2014, l’Euromaidan mi aveva catturato. Era stato così emozionante vedere tutti questi giovani in piazza per rivendicare la propria libertà e il proprio futuro, che da quel momento mi ero preso a cuore il Paese, facendomi un nodo al fazzoletto per ricordarmi di continuare a osservarlo nel tempo. Ora, vedere i carri armati russi che si dirigevano verso Kyiv mentre i civili ucraini preparavano molotov e sacchi di sabbia mi aveva convinto che dovevo fare qualcosa in più se volevo aiutare, nel mio piccolo, a difendere i valori in cui credevo.
La prima opportunità per farlo mi è arrivata due anni dopo, quando Matteo Muzio, il nostro Direttore, mi ha proposto di scrivere per Jefferson e aiutare a coprire la campagna elettorale americana. Quale occasione migliore? Sarebbe stato un anno lungo, ma forse avrei scritto qualcosa di utile per qualcuno, provando a dare il mio punto di vista su quel che succedeva oltreoceano. Ho accettato subito. Conoscendo già il lavoro di Matteo e di Jefferson, mi aspettavo di scoprire storie, persone e luoghi che normalmente restano fuori dalle nostre prospettive, andando al cuore di un Paese complesso e allo stesso tempo imprescindibile da incontrare.
Per me questo ultimo anno è stato un onore e soprattutto un enorme piacere. All’inizio immaginavo che lavorare con i miei colleghi mi avrebbe fatto crescere; quel che non sapevo è che mi avrebbe anche aiutato a restare a galla in un momento difficile, quando dopo la laurea dovevo scegliere se continuare con il mio percorso da storico o spostarmi definitivamente all’attualità. Oggi quella scelta l’ho fatta e sono ancora qui a scrivere. Sebbene raccontare gli Stati Uniti stia diventando ogni giorno più faticoso e stressante, sono sicuro che arriveranno giornate più felici, e spero che il nostro lavoro aiuterà.
Di sicuro lo fa con le mie.
In realtà non è veramente cinese. È una citazione di un diplomatico britannico che, probabilmente, se la inventò senza rendersene conto.