Al bar con un giovane sostenitore di Trump
Cosa significa condividere un drink con il Vicepresidente dei Giovani Repubblicani di Boulder, in Colorado, parlando di Trump nel cuore di una roccaforte democratica?

C’è folla al bancone del bar di Avanti, popolare luogo di convivio a Boulder, in Colorado, alle cinque di un mite pomeriggio infrasettimanale di marzo. L’attesa per il suo Old Fashioned è più lunga del previsto, e Tanner Egloff ha il tempo di un affettuoso saluto bipartisan con una senatrice democratica dello Stato seduta per caso a un tavolo vicino.
“Arrivo tra un momento. Mi scuso per l’attesa”, scrive Egloff, nel tono formale che contraddistingue la sua comunicazione digitale, in un sms alla giornalista che lo aspetta con una birra.
Alto e magro, con un cespuglio di capelli scuri che insieme alle bretelle nere gli conferiscono l’aria dello scienziato pazzo, Egloff è in tenuta primaverile da patriota urbano all’ultimo anno di college, dove studia scienze politiche, storia e filosofia: camicia a righe bianche e blu con i RayBan che spuntano dal taschino, pantaloni grigi da vestito e scarpe nere con la fibbia, cravatta rossa e blu come i colori della bandiera che spicca sul fermacravatta di metallo.
“Non mi vedrai camminare per la strada gridando ‘viva Trump’, non sono un sostenitore ciecamente fedele”, esordisce Egloff. “Però apprezzo tanto di ciò che ha fatto”.
Tanner Egloff ha ventidue anni ed è il Vicepresidente dei Giovani Repubblicani del Colorado per la zona dello Stato nota come Front Range, nonché il presidente di Turning Point USA (un’associazione conservatrice diffusa in scuole superiori e università) per la sezione dell’Università del Colorado a Boulder e, infine, l’assistente di una rappresentante repubblicana dello Stato del Colorado di cui chiede di non pubblicare il nome, perché non è in questa veste che rilascia l’intervista.
“La gente pensa sempre il peggio di chi vota per Trump”, riflette Egloff dopo un sorso di Old Fashioned. “Ma spesso le persone hanno priorità diverse da ciò che è popolare sui social [si riferisce a certe battaglie progressiste, ndr]. A votare per Trump è stata una coalizione molto ampia di persone. In tanti hanno pensato che non fosse la scelta migliore, ma le loro condizioni di vita erano peggiorate e Trump ha promesso di migliorarle”.
Sono passate poco più di ventiquattr’ore dal provvedimento di Trump che impone dazi del 25 per cento su importazioni di auto straniere e ricambi necessari per la produzione di automobili statunitensi. I mercati hanno appena subito l’ennesimo sussulto; i giornali traboccano di grafici che illustrano il colpo sull’industria automobilistica domestica. A pochi è chiaro come le condizioni di vita potranno migliorare grazie a Trump.
Egloff corruga la fronte e annuisce, come ad asserire che è normale pensare che qualcosa non torni. Poi risponde: “Trump ha fatto campagna elettorale sui dazi. Sì, in un primo momento la gente ne risentirà, ma poi gli effetti negativi saranno neutralizzati da quelli positivi”. Tra questi, cita il ritorno a un’economia indipendente e a una produzione autosufficiente, che non ricorre a manodopera in aree del mondo dove il costo del lavoro è inferiore. “La corsa a dove possiamo trovare la manodopera più economica è una vergogna”, dice, sostenendo che si tratti di vero e proprio sfruttamento dei lavoratori nei Paesi in via di sviluppo.
Non è raro che Egloff si lasci andare a un linguaggio più tipico della sinistra. Quando parla di un progetto di Trump con cui non si trova d’accordo – la gold card, una “carta d’oro” che concederebbe la cittadinanza statunitense a chi è disposto a pagare cinque milioni di dollari – lo definisce “un’umiliazione per gli immigrati”: “È un insulto al significato di essere americano, dire che la cittadinanza è avere una certa quantità di denaro”, dice Egloff, sottolineando che anche la giornalista con cui sta conversando avrà affrontato numerosi ostacoli per ottenere la sua carta verde. “Il percorso deve essere uguale per tutti”.
Difficile da capire se è astuzia politica, oppure semplicemente la cornice di Boulder, città universitaria sinonimo di progressismo (a volte anche ripiegato su sé stesso) tanto quanto Bologna in Italia, Berkeley in California o Cambridge in Massachusetts, che smussa gli angoli del trumpismo rintracciabile altrove. Rispetto ad altre roccaforti democratiche, il 20 per cento dei suffragi riscosso da Trump a Boulder alle ultime presidenziali è un risultato di tutto rispetto; ma a queste latitudini, un sostenitore di Trump rimane il proverbiale ago nel pagliaio. Ancora di più se è uno studente universitario.
Nel campus della sua università, però, Egloff non si sente diverso. Fa gruppo con la sezione di Turning Point USA che presiede (l’associazione è stata co-fondata da Charlie Kirk, attivista conservatore tra i punti di riferimento della maschiosfera) e poi spiega: “Ho un debole per il lato avversario. I democratici sono ottime persone. Non sono necessariamente d’accordo con loro, ma la bellezza dell’America è la diversità di prospettive. È un peccato che la maggior parte della gente non ascolti chi c’è dall’altra parte”.
D’altra parte, se Egloff smettesse di comunicare con il lato avversario dovrebbe tagliare i ponti anche con la famiglia. Il giovane repubblicano è nato e cresciuto a Denver in una famiglia della classe media “molto progressista, molto democratica, anche se non attivamente interessata alla politica”.
Durante le superiori, che ha frequentato in una scuola pubblica, Egloff ha iniziato a informarsi su temi di politica cercando di capire per se stesso da che parte identificarsi. In occasione di un ritrovo tra parenti durante la prima amministrazione Trump, il giovane si è sentito umiliato da una zia che lo ha rimproverato per delle osservazioni che sembravano suggerire un orientamento conservatore. “Non me lo scorderò mai”, racconta Egloff di questo episodio, che ha rappresentato una svolta nella ricerca della sua identità politica. Approfondendo ulteriormente le sue intuizioni, Egloff è approdato al conservatorismo. Alcuni parenti hanno smesso di parlargli e lo hanno bloccato sui social media.
Essere conservatore, per Egloff, significa sfidare il sistema, come hanno fatto gli elettori che nel 2016, dice il giovane, “si sono sentiti traditi dalla classe politica e hanno mostrato il dito medio all’establishment votando per un outsider”.
C’è sempre stata una contraddizione di fondo, tra la ribellione all’ordine costituito che accende la miccia dei movimenti reazionari come il trumpismo – e il disordine letterale e metaforico che ne consegue – e i valori di ordine pubblico e rispetto della legge che vanno rivendicando. Egloff spiega con entusiasmo che una delle convinzioni costitutive di Turning Point USA è che “la Costituzione degli Stati Uniti è il documento politico più eccezionale che sia stato mai scritto”. Cosa pensare, allora, dei conclamati tentativi di Trump di calpestarne i principi fondamentali, ad esempio sfidando la separazione del potere esecutivo da quello giudiziario? A che punto la sfida al sistema in nome del popolo diventa stravolgimento del progetto umano e politico senza il quale il popolo non esisterebbe?
Egloff corruga nuovamente la fronte e sembra quasi che tiri un sospiro di rassegnazione, come se intuisse che certe evidenze non si prestano a più interpretazioni dell’unica possibile. Oppure è l’illusione di chi per l’ennesima volta spera che a sto giro non sarà possibile controbattere, di fronte alla logica cristallina della realtà. Invece è possibile: “Non mi sembra che dobbiamo temere un attacco alla separazione dei poteri”, ribatte infine Egloff. “Trump ha giurisdizione sui migranti, ad esempio, quindi non è inappropriato per lui criticare il giudice che ha bloccato le deportazioni dei venezuelani” [per questo giudice Trump ha invocato l’impeachment, ricevendo una rarissima ammonizione da parte del Presidente della Corte Suprema John Roberts, ndr].
E l’annuncio senza precedenti che l’ufficio stampa della Casa Bianca selezionerà il gruppo di giornalisti autorizzati a seguire il presidente nell’esercizio delle sue mansioni?
“Hmm, è un’arma a doppio taglio, sicuramente”, commenta il giovane repubblicano. “Non mi trova del tutto d’accordo. Puzza un po’ di censura. Però è anche vero che tante testate non si comportano professionalmente quando parlano di Trump. Non è la maniera appropriata di fare giornalismo”.
E la paura che ormai paralizza Washington e chiunque si avvicini al Presidente o abbia un’opinione anche leggermente diversa dalla sua? È normale, è accettabile aver paura del Presidente degli Stati Uniti?
“Beh, certo, può essere preoccupante che la gente abbia paura di Trump”, concede Egloff, poi ribatte: “Però ci sono situazioni diverse. C’è chi oggettivamente deve aver paura di contraddire Trump, come ha fatto il sindaco di Denver, Mike Johnston, sulla questione migranti [Denver è una cosiddetta “città santuario” che si rifiuta di collaborare con il governo federale per la deportazione di migranti senza documenti, ndr]. Non è un tema su cui si può contraddire Trump in quanto Presidente”.
Gli Stati Uniti sono un Paese dove vige una massiccia e non proprio taciuta segregazione politica su base sociale e geografica. Non solo le persone che non la pensano nello stesso modo non si parlano più, ma è anche sempre più raro che si trovino ad abitare gli stessi spazi. Cosa significa condividere un drink con un sostenitore di Trump, parlando di Trump, nel cuore di una roccaforte democratica? Cosa succederebbe se a farlo non fosse una giornalista, con tutti i limiti che la professione impone, ma una persona qualunque disposta a mettersi in posizione di ascolto e comunità? C’è ancora speranza di ascolto e comunità tra dispari?
Tanner Egloff, che da grande vuole fare il senatore, ritiene di sì.
“La gente concorda su più cose di quante pensiamo”, dichiara congedandosi.
Bisogna solo avere il coraggio di verificarlo.