9/11 Memorial | L'ultima guerra della Germania
Il conflitto afghano è stato uno spartiacque per la politica estera tedesca, non più ancorata ai timori di grandeur della Seconda guerra mondiale. Ma conta di più l'atlantismo o l'indipendenza?
Of all foreigners I should prefer Germans. They are the easiest got, the best for their landlord, and do best for themselves.
Lettera a Richard Claiborne, 8 agosto 1787
Buona giornata ai lettori di Jefferson,
Siamo giunti alla terza tappa del nostro viaggio nell'America post-11 settembre.
Come si intuisce dalla citazione jeffersoniana prescelta, indaghiamo il rapporto con la Germania, allora governata dalla coalizione rossoverde del cancelliere Gerhard Schroeder e che, secondo i sondaggi, si appresta ad avere un nuovo leader socialdemocratico.
Pietro Malesani e Margherita Girardi, autori della newsletter tematica sulla Germania Il Fendinebbia, ci raccontano il rapporto tumultuoso tra Washington e Berlino nei primi anni della guerra al terrore, analizzando anche il ritorno della Bundeswehr sul campo di battaglia in Afghanistan.
Buona lettura.
Quando a New York vengono attaccate le Torri Gemelle, a Berlino il posto di Cancelliere è occupato da Gerhard Schröder: al governo ci sono il suo Partito Socialdemocratico e i Verdi di Joschka Fischer, mentre i conservatori sono tra le fila dell’opposizione.
Nel 2001 la Germania è nel mezzo di un’era politica assai distante da quella attuale, molto più di quanto non dicano i vent’anni trascorsi. La riunificazione è avvenuta da appena un decennio e le tensioni tra Est ed Ovest sono ancora presenti, visibili. La capitale è stata trasferita ufficialmente a Berlino, ma l’impronta politica è rimasta quella di Bonn, con l’ex Repubblica Democratica che fatica a far sentire la propria voce. Angela Merkel, oggi prossima alla pensione, è già una figura di spicco, ma nulla lascia prevedere il suo lungo regno: del resto, alla sua salita al potere mancano ancora quattro anni ed un’elezione persa.
Soprattutto, il Paese è ancora saldamente ancorato al Novecento e ad alcuni punti fermi del dopoguerra. Su tutti, la prudenza estrema relativamente al ruolo della Germania sullo scacchiere internazionale: il ricordo del Terzo Reich e delle sue conseguenze è ancora fresco e a Berlino si preferisce evitare qualsiasi discorso che possa essere letto come un tentativo di cercare una nuova grandezza. Il nazionalismo è un tabù, la forza militare pure: l’esercito tedesco esiste ma la partecipazione alle missioni militari non viene nemmeno presa in considerazione.
Proprio con gli attentati terroristici di al Qaeda avviene, però, un’inversione di rotta. Non in maniera improvvisa, in realtà: due anni prima aveva già sollevato un certo clamore la presenza tedesca nella missione Nato in Kosovo. Tuttavia, in quel caso la presenza della Germania si confondeva nel gruppo di oltre trenta Stati coinvolti e il suo contributo era stato minimo in termini di truppe inviate.
In Afghanistan, invece, cambia tutto. La Germania si presenta come una della principali forze in campo, seconda come numero di soldati soltanto agli Stati Uniti e, nel primo periodo, al Regno Unito. E lo fa a sorpresa: al governo ci sono infatti i socialdemocratici – che, in linea con il centrosinistra europeo, non hanno mai insistito sull’importanza degli interventi armati – e i Verdi, a parole totalmente contrari ad ogni missione. Gli ambientalisti tedeschi sono ancora un partito di nicchia, lontano dalle percentuali attuali e molto più legato alla propria base movimentistica: questa è composta da una miriade di gruppetti accomunati dall’attenzione al clima e, appunto, dal pacifismo.
La decisione di recarsi a Kabul ha quindi un effetto esplosivo sul governo: l’alleanza tra Verdi e Socialdemocratici sembra incrinarsi, una parte del partito ambientalista non ha intenzione di voltare le spalle ai propri ideali. Ci pensa Fischer a risolvere gli esami di coscienza di molti. La guerra non è la soluzione, dice, ma non lo sono nemmeno terrore e violenze. Alla fine, i Verdi si piegano quindi alla “giusta causa”, compiendo un passaggio fondamentale per la loro trasformazione in forza di governo.
Sembra l’inizio di un periodo nuovo, che vede la Germania protagonista a livello internazionale ed impegnata sul piano militare, in particolare nella “guerra al terrore” indetta dagli Stati Uniti di George W. Bush. Ben presto, si rivela invece essere soltanto una parentesi. Nel 2003 infatti il governo rossoverde, lo stesso che aveva accettato di buon grado l’operazione afghana, rifiuta con fermezza di partecipare a qualsiasi azione venga scatenata contro l’Iraq di Saddam Hussein.
Ad essere decisivi sono l’opinione pubblica, in gran parte contraria, e soprattutto i Verdi, questa volta irremovibili. «I am not convinced» risponde Fischer al segretario della Difesa statunitense Rumsfeld, non lasciandosi persuadere dalla notizia che Washington avrebbe le prove di nuove armi chimiche sviluppate dal rais mediorientale.
La tendenza non cambia nemmeno con i governi Merkel, dal 2005 in poi. La guida dei conservatori era stata tra le poche a disapprovare la linea dell’esecutivo rosso-verde e a chiedere una riflessione più approfondita sull’Iraq ed, eventualmente, una partecipazione.
Chi si aspetta una rivoluzione resta però deluso: entrare nella missione con un colpevole ritardo sarebbe inutile, e poi i tempi sono cambiati e già in Afghanistan la situazione sta diventando complessa. La Cancelliera decide quindi di mantenere l’equilibrio: ogni nuovo coinvolgimento sarà il più possibile evitato, con l’eccezione dei bombardamenti sulla Siria; al tempo stesso, anche le richieste di ritiro anticipato da Kabul – avanzate dall’opposizione e da buona parte dell’opinione pubblica – verranno sempre rimandate al mittente.
Mai più replicata, la scelta di partecipare ad un’operazione militare e di recarsi a Kabul resterà di difficile interpretazione. Forse è pesata la necessità di sottolineare la propria fedeltà all’atlantismo e all’alleato americano, in un periodo durante il quale la Germania non aveva la forza per camminare con le proprie gambe.
Forse, al contrario, voleva essere il primo passo verso la ricerca di un’autonomia e di un ruolo forte, a livello internazionale. Le difficoltà si sono rivelate più numerose del previsto, però, e così a Berlino si è deciso di tornare a fare quello che riesce meglio: dominare, sì, ma in Europa e attraverso la potenza economica, senza rischi eccessivi.