#15 Brainstorm – Il debutto della Maganomics
Il secondo mandato di Donald Trump è cominciato da poco e già si vedono i primi segnali nell'economia. Ecco le opinioni di Giacomo Stiffan, Matteo Muzio ed Emanuele Monaco
Perché guardare gli Stati Uniti dal buco della serratura? Quando serve una chiave di lettura la trovi su Brainstorm, la rubrica di Jefferson che raccoglie le opinioni della redazione sui fatti americani. A cura del vicedirettore Giacomo Stiffan.
La Maganomics comincia a dispiegare le ali, generando turbini un po' dappertutto: i primi dati non sono incoraggianti, ma meritano comunque un’analisi.
Ne vediamo gli effetti nelle opinioni di Giacomo Stiffan, Matteo Muzio ed Emanuele Monaco.
“Gli americani hanno scelto di seguire il pifferaio magico e ora cominciano a pagarne le conseguenze”
di Giacomo Stiffan
Come volevasi dimostrare, l'inflazione ha risentito istantaneamente della politica economica di Trump, segnando a gennaio un +0,5 per cento mese su mese e +3 per cento anno su anno (+0,4 per cento e +3,3 per cento per l’inflazione core, senza alimentari ed energia). Si tratta di un rialzo ben sopra alle aspettative, ma non è niente di nuovo. Che i dazi, il terrorismo sull’immigrazione e una politica estera di ripudio delle alleanze commerciali avrebbero avuto effetti in inflattivi, lo diciamo da mesi.
Effetti la cui comprensione è alla portata di qualsiasi studente con un diploma di maturità in tasca: i dazi vengono applicati agli importatori americani, che a loro volta li scaricano su tutta la catena di distribuzione fino ai consumatori finali; meno immigrati significa un calo dell’offerta di manodopera, specialmente quella a basso costo che si occupa di quei lavori indispensabili ma che nessun american born vuole più fare, cosa che fa lievitare i costi per le aziende e quindi i prezzi; mettere in discussione gli accordi commerciali con gli alleati ha lo scopo dichiarato di riportare tutte le fasi di produzione in casa, ma bisogna avere la consapevolezza che quello che prima veniva prodotto in Messico per due spicci costerà di più se made in USA.
Comunque, nonostante gli avvertimenti di esperti e premi Nobel sui pericoli della maganomics, gli americani hanno scelto di seguire il pifferaio magico e ora cominciano a pagarne le conseguenze. Anzi, le pagheremo tutti, su questo non ci piove, ma gli americani lo faranno con la vergogna di essersi dati la zappa sui piedi con le proprie mani: l’inflazione post pandemica, tema cruciale in campagna elettorale, rischia ora di diventare la nuova normalità. Il prezzo delle uova, che Trump ha usato come simbolo di cattiva gestione economica da parte di Biden, è già aumentato e schizzerà alle stelle non solo per la maganomics, ma anche per l’epidemia d’influenza aviaria in corso che diventerà sempre più grave grazie ai tagli di Musk alle agenzie federali e all’antiscientismo di RFK. Perché gli effetti negativi sulle tasche degli americani non verranno causati solo dalla politica economica, ma dall’intero Project 2025… pardon, “progetto politico di Donald Trump che non ha nulla a che vedere con il Project 2025”.
Il bello è che l’inflazione di gennaio è solo un dato sull’aspettativa di ciò che succederà, non su qualcosa che si è già manifestato: Trump è entrato alla Casa bianca negli ultimi dieci giorni del mese. Tuttavia, da un lato si cominciano già ad aggiustare i prezzi – soprattutto dell’energia e, quindi, a cascata tutto il resto –, dall’altro è cominciata la corsa ad accumulare beni prima che sia troppo tardi.
Più domanda uguale più inflazione, ma in un Paese dove l'indebitamento privato è già alle stelle significa che una bolla sta per scoppiare: quella sulle carte di credito, il cui debito totale ha raggiunto 1,21 trilioni di dollari a fine 2024, pericolosamente vicino ai valori della bolla del 2008 sui mutui sub-prime. Se ci mettiamo di fianco i tagli alla sanità, alla scuola, ai contributi federali e il mancato abbuono dei debiti scolastici, è lapalissiano che farla scoppiare è un attimo.
Trump e i suoi sono schegge impazzite, dicono una cosa e ne fanno un’altra, mettono i dazi e il giorno dopo li tolgono. Tradotto: trasmettono incertezza, e i mercati odiano l'incertezza. S’è visto sia a dicembre che a gennaio, con il calo dei mercati azionari, mentre a febbraio l’andamento è stato piatto. Certo, è presto per dirlo, ma è un segnale che ai mercati questa roba qua per ora è indigesta.
È passato solo un mese dall’insediamento di Trump, i dati arriveranno, ma la strada è tracciata e non è per nulla piacevole.
“La società americana è pronta a sopportare le gravi conseguenze della mal posta ossessione per McKinley?”
di Emanuele Monaco
Se avete avuto modo di ascoltare un comizio, un’intervista, un intervento di Trump in cui parla di dazi, è molto probabile che abbiate sentito citare il nome di un presidente molto meno conosciuto, William McKinley. Trump lo cita spesso perché il 25° presidente degli Stati Uniti è famoso per aver firmato uno dei più grandi incrementi di dazi doganali della storia americana. Come molte cose che Trump dice, nel migliore dei casi incomplete e fuorviate, anche la sua fascinazione e ossessione per McKinley è mal posta, e, anzi, controproducente, soprattutto se accompagnata dall’affermazione che il Paese fosse nel suo periodo di maggior splendore e ricchezza dal 1896 al 1914.
Trump confonde quello che era un vero problema a fine Ottocento, l’enorme surplus di bilancio del governo federale, con qualcosa di positivo, “un problema che spero di avere presto in questo Paese” (Trump, lo scorso settembre all’Economic Club a New York). All’epoca non esisteva tassazione su reddito e profitto, quindi lo Stato si finanziava in due modi: dazi doganali sulle importazioni e accise sull’alcool. Entra quindi in gioco il membro del congresso William McKinley dell’Ohio. Come capo della commissione bilancio della Camera, propose nel 1890 una soluzione al surplus prodotto dai dazi, cioè, aumentarli di molto. Questo nel tempo avrebbe portato a minori importazioni e quindi, logicamente, minori entrate. Obiettivo riuscito, il surplus di bilancio cominciò a scendere. Purtroppo l’aumento dei prezzi prodotto dai nuovi dazi capitò nel bel mezzo della più grande crisi finanziaria del Paese fino ad allora (causata in parte dall’altro grande problema economico degli Stati Uniti di fine Ottocento, il mantenimento del gold standard). La cosa costò ai repubblicani la maggioranza in congresso e la presidenza.
Il McKinley presidente, nel 1896 e poi nel 1900, aveva un approccio diverso. All’inizio del secondo mandato il Paese, uscito dalla crisi, si trovava in un periodo di boom industriale e piena occupazione. Con un mercato interno saturo bisognava aprirsi al commercio per trovare nuovi sbocchi per la tumultuosa produzione americana. McKinley era pronto a smettere di essere il tariff king. Il 5 settembre 1901, di fronte a una folla arrivata per la Pan-American Exposition a Buffalo, disse: “Il periodo della chiusura è finito, la reciprocità è in armonia con lo spirito del tempo, non le misure di ritorsione”. Non servendo per finanziare lo Stato, non essendo più utili per proteggere produzioni locali, abbassare i dazi sarebbe stato un modo per negoziare con altri Paesi al fine di aprirne i mercati. Questo perché l’economia, allora ancora di più oggi con l’attuale grado di interdipendenza e complessità delle filiere produttive, non è un gioco a somma zero. Non sapremo mai se il 25° presidente degli Stati Uniti avrebbe lanciato un’era di trattati commerciali. Il giorno successivo al discorso, l’anarchico Leon Czolgosz gli sparò, provocandone la morte giorni dopo. Moriva il tariff king, proprio quando l’America era pronta ad aprirsi al mondo, come avrete modo di ascoltare nella puntata del podcast di Jefferson Ammazzare il Presidente in uscita la prossima settimana.
Ora che i dazi sono di nuovo popolari, con Trump a cui sfugge la vera eredità economica della Gilded Age, la società americana è pronta a sopportare le gravi conseguenze di questa mal posta ossessione?
“Un incalcolabile danno per l’immagine e il prestigio degli Stati Uniti fatto in meno di un mese per accontentare una cricca di tecnocrati“
di Matteo Muzio
La concezione dell’uso dei dazi da parte di Donald Trump è errata, per non dire infantile. Li descrive come un’arma per rimpolpare le casse pubbliche e per togliere finalmente le tasse sul reddito introdotte nel 1913 dal presidente democratico Woodrow Wilson. Usarli per restituire le "malefatte" ai partner commerciali è una idiozia totale che rovescia anche un'altra idea concepita da un presidente dem come Franklin Delano Roosevelt nel 1934: fare trattati bilaterali per abbassare i dazi e armonizzare le barriere doganali tramite un accordo favorevole. La grezza concezione economica del tycoon, alimentata dalla sua esperienza newyorchese delle origini, si situa in uno dei periodi peggiori per la città per corruzione e infiltrazione mafiosa nelle istituzioni cittadine.
Un incalcolabile danno per l’immagine e il prestigio degli Stati Uniti, fatto in meno di un mese per accontentare una cricca di tecnocrati passati nel giro di un paio di anni da un’inclusività di facciata (si legga l’esperienza di una ex executive del tech, Ellen Pao, nel libro La guerra di Ellen) a essere entusiaste cheerleader di un uomo che avevano bannato da tutte le piattaforme soltanto nel 2021. Un matrimonio d’interesse fatto per coprire un progetto cleptocratico come il DOGE, dove uomini provenienti dalle compagnie di Elon Musk si preparano a sostituire il governo federale nell’erogare i servizi essenziali agli americani.
L’uso dei dazi, insomma, appare come un tentativo per impoverire i cittadini con il reddito più basso per poi incolpare qualche imprecisata entità esterna per il mancato arricchimento promesso, e magari usare una nuova stretta autoritaria come scusa contro eventuali sabotatori del meraviglioso piano per la nuova età dell’oro americana, che sempre più assomiglia alla Gilded Age di fine Ottocento, incluso il deterioramento democratico che avvenne in quel periodo negli Stati del profondo Sud, stavolta esteso all’intero Paese.