La Trumponomics che verrà
Donald Trump ha fatto grandi promesse in campagna elettorale per quanto riguarda l'economia. Se dovesse mantenerle, si preannunciano conseguenze importanti. Vediamo quali
Non è semplice immaginare come sarà l’economia durante il secondo mandato Trump. 2017 e 2025 presentano due situazioni molto diverse. Durante il suo primo mandato Trump non aveva i numeri di cui gode ora: gli mancava la benedizione del voto popolare e, soprattutto, non aveva il controllo del partito Repubblicano, che in larga parte si occupava di arginare le sue intemperanze, piuttosto che di incentivarle. Mai come ora Donald Trump ha in mano gli strumenti per realizzare qualsiasi cosa gli passi per la testa: la Casa Bianca, la maggioranza del Congresso e della Corte Suprema, nonché una presa d’acciaio sul suo partito.
Analizziamo quindi quali potrebbero essere le sue linee guida in materia economica, le azioni che potrebbe intraprendere e le loro ipotetiche conseguenze.
Protezionismo
Trump non ha mai nascosto la sua attrazione per le politiche protezionistiche. Gli Stati Uniti sono un Paese importatore, e per questo tipo di Paesi il protezionismo è efficace per fare in modo che la produzione dei beni venduti nel mercato interno venga realizzata in loco. Questo aiuta l’economia, in particolare l’occupazione, e idealmente lavora nella direzione giusta per invertire o quantomeno migliorare la bilancia commerciale.
Questo non significa che i dazi non abbiano comunque effetti negativi su un Paese come gli Stati Uniti. Le guerre commerciali in genere non fanno bene all’economia e, sebbene importino più di quello che esportano, gli USA esportano comunque moltissimo. È ragionevole pensare che le aziende americane subirebbero politiche di ritorsione da parte degli altri Paesi.
Per comprendere l’impatto del protezionismo trumpiano, tuttavia, queste misure vanno messo in relazione con le altre della sua politica economica.
Dazi
L’intenzione di Trump sarebbe di applicare un dazio universale che andrebbe dal 10 al 20 per cento nei confronti di tutti i partner commerciali. In alcuni casi specifici potrebbe essere alzato, ad esempio fino a un iperbolico 60 per cento nei confronti di alcune merci cinesi e, a detta di Trump, fino al 1000 per cento in altre circostanze. È probabile che i dazi verranno usati come mezzo per convincere gli altri attori internazionali ad agire secondo il proprio volere più che come fine ultimo, ma anche se fossero implementati in minima parte sarebbero comunque ben più importanti di quelli applicati durante il suo primo mandato.
Va considerato che l’America importa merci per 3 trilioni di dollari ogni anno, di cui 1 trilione in beni di consumo, come ad esempio elettronica cinese, cibo da Canada e America Latina e farmaci da India e Messico. Esistono però merci che non possono essere prodotte negli USA per questioni climatiche, come il caffè, il cacao e le banane, oppure geografiche, come varie specie ittiche. Per altri prodotti, gli Stati Uniti semplicemente non sono attrezzati per una produzione tale da soddisfare le richieste del mercato interno. È il caso dei pomodori e degli avocado, importati per circa il 90 per cento del totale. In altri casi ancora, la produzione di determinati beni è strettamente legata a uno specifico territorio o a uno specifico know how: pensiamo ai vini e ai formaggi europei, ma anche all’artigianato di lusso. Ci sono poi produzioni domestiche che già ora dipendono in larga parte da componenti importati, la cui produzione non può essere realizzata in loco se non con investimenti enormi nell’arco di svariati anni: pensiamo ad esempio al settore dell’automotive o alla produzione di chip high end.
Inflazione
I dazi hanno un effetto inflazionistico evidente, sebbene il loro impatto sia difficile da prevedere. Il loro scopo è penalizzare le merci non prodotte in loco, e il mercato interno riesce ad assorbire questi aumenti senza subire shock solo fino a un certo punto.
L’abbiamo visto con i dazi del primo mandato Trump, poi mantenuti anche da Biden e anzi inaspriti. Il punto è che i dazi di cui ha parlato Trump in campagna elettorale sono enormemente più elevati, e da qualsiasi angolazione la si guardi sono costi che si abbatteranno sui consumatori, vuoi per l’impossibilità di produrre un determinato bene negli Stati Uniti, vuoi per il maggior costo nel farlo a livello domestico.
Va poi considerato che l’inflazione non ha lo stesso effetto per tutti, in quanto colpisce la quota di reddito che viene spesa. Chi guadagna molto spende solo una parte del proprio reddito, mentre il resto può essere investito beneficiando dell’effetto volano che l’inflazione ha sui mercati. Le fasce di reddito più basse, invece, consumano l’intero reddito per sopravvivere e subiscono l’effetto dell’inflazione in maniera totale: saranno loro a subire la politica economica di Trump nella maniera più brutale.
Mercati e politica monetaria
Durante il primo mandato Trump si è visto che i mercati reagiscono velocemente ai dazi, arrivando ad anticiparne gli effetti reali anche di sei mesi. Ubs stima che un dazio universale del 10 per cento su tutte le merci importate negli USA si tradurrebbe in un calo immediato del 10 per cento nei mercati azionari. Allora, come si spiega il fatto che la vittoria del tycoon ha elettrizzato l’azionario statunitense?
Lo scorso mandato di Trump ci insegna che questo effetto tende a essere di breve periodo. Dopo la luna di miele, i mercati e gli investitori dovranno fare i conti con dei dazi che prosciugheranno i flussi economici tra Usa, Europa e Cina. Non solo: l’inflazione che ne deriva porterà la Fed a mettere mano ai tassi per combatterla, al costo di raffreddare la crescita e a mettersi in diretto contrasto con i piani della Casa Bianca.
Il tycoon spera di cavarsela indebolendo il dollaro, che invece sta andando in direzione opposta, e secondo vari economisti continuerà a farlo proprio a causa della sua politica economica. Un dollaro forte rende più economiche le importazioni, indebolendo le tariffe, che verrebbero alzate rinforzando ulteriormente il dollaro, in un circolo vizioso. Nel frattempo a pagarne le conseguenze sarebbero di nuovo le fasce di reddito più basse, che subirebbero l’inflazione e gli aumenti dei tassi (e quindi dei mutui) operati dalla Fed.
Debito pubblico
Uno dei concetti principali della politica economica di Trump è il taglio delle tasse, in particolare per le aziende. Se la cosa poteva avere un senso nel 2017, nel 2025 ne ha molto meno e per un semplice motivo: l’esplosione del debito pubblico in seguito alla pandemia.
I tagli fiscali di Trump costerebbero trilioni che le casse del tesoro non possono permettersi, motivo per cui ha schierato Elon Musk per occuparsi di tagliarne due dalle spese federali. Il come è tutto da vedere, dato che la commissione capitanata da Musk avrà poteri limitati.
Sta di fatto che, come ha scritto il miliardario della Silicon Valley, «renderemo il governo efficiente, o manderemo l’America in bancarotta». Le probabilità giocano più a favore della seconda ipotesi, soprattutto se consideriamo che se la Fed dovesse tornare ad aumentare i tassi a causa dell’inflazione, aumenterebbero anche i tassi pagati dal governo sui treasury – i cui rendimenti hanno già girato al rialzo sul mercato secondario – peggiorando ulteriormente il debito pubblico. Una serie di circoli viziosi dai quali sarebbe poi difficile uscire senza un approccio drastico.
Social security
Secondo veri analisti, tra i programmi che probabilmente finiranno nel tritacarne di Musk figurano il fondo sanitario per i veterani, quello per la ricerca farmacologica, quello per l’housing, per la scuola ai non abbienti, per i prestiti universitari, nonché l’Obamacare.
Trump non andrebbe però a cancellare questi programmi, bensì li svuoterebbe delle risorse finanziarie per funzionare. Tutti programmi che sono l’ancora di salvezza per milioni di americani, senza i quali rimarrebbero senza assistenza sanitaria, senza casa e senza educazione, andando ad ampliare una disparità sociale sempre più esasperata. Una bomba a orologeria sociale, che aspetta solo di esplodere.
Immigrazione
Se lo scopo dei dazi è portare più produzione dentro i confini, il rovescio della medaglia è che per produrre di più servono più lavoratori di quelli che ci sono ora. Soprattutto bassa manovalanza a basso costo, per fare concorrenza alla Cina e per non porre ulteriore pressione sull’inflazione. Cioè serve immigrazione, che tuttavia Trump vede come fumo negli occhi.
Secondo alcuni analisti, sarebbe intenzione del Presidente eletto usare dei dazi iperbolici sulle merci messicane, per obbligare Città del Messico a farsi carico della tenuta del confine. In altre parole, significa usare i dazi come leva per peggiorare i danni causati dai dazi stessi.
Green economy
Trump ama il petrolio e punterà sui combustibili fossili. È anche molto freddo per quanto riguarda il cambiamento climatico ed è ragionevole pensare che non investirà nel settore della green economy, già in difficoltà negli Usa.
A differenza di otto anni fa, tuttavia, ci troviamo in un mondo sull’orlo di un cambiamento epocale. La Cina l’ha capito da tempo e ha investito in maniera sostenuta sulle tecnologie per la produzione di energia da fonti rinnovabili, ad esempio divenendo leader mondiale nella produzione di pannelli fotovoltaici e batterie, e arrivando a controllare tutta la supply chain collegata fino alle materie prime. L’Europa è più indietro ma non sta a guardare, sviluppando tecnologie innovative e realizzando importanti passi avanti in settori come la produzione e il trasporto di gas da biomasse, per fare un esempio.
Il cambiamento climatico rende la transizione energetica non un se, ma un quando: il ritardo che gli Stati Uniti rischiano di accumulare con le politiche di Trump potrebbe diventare rapidamente incolmabile.
Tuttavia, l’imprevedibilità è una caratteristica ben nota di Donald Trump, e abbiamo visto in passato che le sue promesse elettorali spesso non si traducono in azioni. Va quindi tenuto presente che potremmo avere sorprese riguardo a quanto scritto finora.
Oppure no, solo il tempo lo dirà.