Utopie e sogni nucleari negli anni '50
Come fece Washington a convincere il Giappone ad adottare l’energia atomica solo nove anni dopo Hiroshima?
Nella cittadina di Futaba, nel Giappone nord-orientale, fino a qualche anno fa c’era un cartello in caratteri cubitali, visibile sulla strada che porta dalla stazione verso la costa. Diceva “Nucleare: l’energia per un futuro radioso”. Nel 2015 si pensò che fosse meglio rimuoverlo. Il motivo era che la città intanto aveva smesso di esistere, distrutta da un terremoto, inondata da uno tsunami ed esposta alle radiazioni provenienti dal disastro della vicina centrale nucleare Daiichi di Fukushima. Le immagini di quel disastro, avvenuto in mondovisione, immediatamente riportarono alla mente nomi come Chernobyl e Hiroshima, anche se le leggi della fisica e dell’ingegneria nucleare rendessero il paragone fuorviante e improprio, quando non assurdo.
Siamo tutt’ora inquietati da scenari di nubi a fungo e terribili malformazioni da radiazioni, ogni volta che giornali e tv parlano anche del minimo problema tecnico a una centrale nucleare. Il che rende ancora più straordinaria la storia di come un Paese come il Giappone si sia convinto a adottare questa fonte di energia, soltanto pochi anni dopo Hiroshima e Nagasaki.
Gli anni ’50 e ‘60 videro infatti una trasformazione profonda nel modo in cui il nucleare veniva immaginato e raccontato dopo gli orrori della guerra. Nel suo discorso a Richland, Washington, nel 1968, Glenn Seaborg, premio Nobel per la chimica per la scoperta del plutonio, invitò gli abitanti a sognare in grande, dopo che il plutonio prodotto nel vicino impianto di Hanford era stato usato per distruggere Nagasaki. Lo stesso luogo poteva dare origine alla nuova frontiera dell’energia, con centrali moderne che avrebbero dato elettricità a industrie, a nuove scoperte nella medicina e all’esplorazione spaziale. “La rara promessa al servizio dell’umanità” costituita dal plutonio, avrebbe trasformato ogni aspetto della società americana. In quei decenni Seaborg non era il solo a pensarla così. Anche se il battesimo di questa fonte di energia era avvenuto con le esplosioni più letali della storia, prendeva vita il sogno di un futuro pacifico con al centro proprio il nucleare.
Il nucleare doveva diventare la fonte di un futuro fatto di invenzioni salvavita e rivoluzioni nei trasporti e nei servizi pubblici. La medicina avrebbe fatto passi di gigante, navi e aerei nucleari avrebbero messo fuori commercio ogni mezzo a petrolio, il potere esplosivo del nucleo degli atomi avrebbe abbattuto i costi di costruzione di canali ed edifici. “Atoms for Peace”, proclamò il Presidente Eisenhower all’assemblea delle Nazioni Unite l’8 dicembre 1953. Dopo aver spaventato gli astanti descrivendo un futuro e letale confronto militare tra potenze atomiche, Eisenhower presentò la più improbabile delle soluzioni: costruire pace con l’energia da fissione nucleare. Gli Stati Uniti avrebbero condiviso tecnologia, formazione tecnica e materiale per la ricerca a chi l’avrebbe voluto. Il patto avrebbe consolidato i rapporti con gli alleati, provato i vantaggi dell’amicizia con Washington e avrebbe fornito una soluzione alternativa a un uso militare del nucleare per quei Paesi con programmi di armamento già avviati.
Il Giappone era un candidato perfetto per il programma. Durante l’occupazione, quindi fino ad aprile 1952, ogni programma di ricerca in fisica nucleare era stato proibito, qualsiasi fosse il fine pratico. Tuttavia, i tempi erano cambiati. Nella mente del pubblico americano il Giappone, quale unico Paese vittima del potere distruttivo della bomba, meritava di essere quello che raccogliesse i benefici di un uso pacifico del nucleare.
Tuttavia, l’origine bellica continuava a essere una costante spina nel fianco del radioso futuro promesso dall’atomo. Tre mesi dopo il discorso ci Eisenhower, il 1 marzo 1954, gli Stati Uniti fecero detonare il più potente ordigno nucleare mai impiegato nella storia, la bomba a idrogeno. Il luogo dell’esplosione, l’atollo di Bikini nel Pacifico, doveva essere abbastanza lontano da isole e centri abitati da permettere il test in sicurezza. Non andò così. La nube radioattiva colpì una barca di pescatori giapponesi di passaggio, chiamata Lucky Dragon Number 5, esponendo tutti e 23 a radiazioni dirette. Quando tornarono in porto la maggior parte mostrava segni di malattia da radiazioni. Il panico che ne scaturì è facile da immaginare, soprattutto quando si seppe che il pescato, esposto anch’esso, era già stato venduto al mercato. Paradossalmente il dibattito che ne emerse era il primo di questo tipo in Giappone, perché le forze di occupazione avevano censurato discussioni e informazioni riguardo gli effetti delle bombe sganciate alla fine della guerra.
La reazione del governo giapponese di fronte a quella che molti chiamarono “un’altra Hiroshima” fu molto diversa da quella prudente post-Fukushima. Il Paese era ancora devastato e stava solo lentamente uscendo dalla catastrofe della sconfitta. La sua reputazione sulla scena internazionale era in frantumi, e tutti gli sforzi di modernizzazione iniziati dopo la rivoluzione Meiji erano stati annullati. Il Paese aveva bisogno di una nuova identità e un nuovo ruolo nel mondo, il tutto all’interno dell’ombrello ideologico e difensivo atlantico, ma come prima cosa aveva bisogno di energia. Con il potenziale dell’idroelettrico saturato negli ultimi cinquant’anni e le importazioni di carbone e petrolio rese costose dall’impossibilità di accedere al mercato cinese, la promessa nucleare di Eisenhower era troppo allettante. La nuova dottrina Yoshida (dal nome del primo ministro Yoshida Shigeru) dopotutto proponeva per il Paese un cammino di sviluppo economico basato sull’innovazione tecnologica e non su un ruolo attivo nelle relazioni internazionali. Negli anni ’50 niente sembrava più futuristico del nucleare, quindi la scelta era ovvia.
Con l’opinione pubblica però divisa e preoccupata, cominciò un’offensiva informativa per convincerla. Sui giornali americani l’offerta di Eisenhower, fatta poi direttamente al governo di Tokyo dopo l’incidente della Lucky Dragon, era descritta con toni quasi escatologici. «Molti americani sanno ormai che il lancio delle bombe non era necessario» scrisse Foster Hailey sul Washington Post il 23 settembre 1954. «Come meglio ripagare di ciò il Giappone che offrirgli i mezzi per produrre energia atomica in modo pacifico?». Citando il capo della Commissione per l’Energia Atomica, Thomas E. Murray, chiosò «un gesto così cristiano e deciso ci porterebbe molto più lontano dal ricordo del massacro nelle due città (di Hiroshima e Nagasaki, n.d.r.)».
In Giappone l’opera informativa degli Stati Uniti era accompagnata da una produzione artistica che rispondeva alla crescente domanda di futurismo e utopie post-moderne. La serie di manga di Osamu Tetzuka “Tetsuwan Atomu” è forse quella più famosa del genere. Ambientato in un Paese futurista alimentato dall’atomo, tutto della storia del protagonista, Atom, parla di nucleare. Dalla famiglia, ovviamente “nucleare” (un gioco di parole che esiste anche in giapponese), ai nomi della sorella, “Uran” e del fratello “Cobalt”. Ciò che manca nel manga sono le bombe. In quel futuro radioso, simile a quello descritto da Eisenhower, i reattori avrebbero sostituito missili e testate.
Il movimento antinucleare, il più vasto al mondo, era ancora sotto shock per l’incidente del 1954 e si concentrò per molto tempo a opporre prevalentemente ogni possibile sviluppo di armi nucleare in Giappone (un’interpretazione letterale dell’art.9 della costituzione giapponese, infatti, portava a questa paradossale possibilità). Il più famoso e importante prodotto culturale da quel punto di vista fu Godzilla, uscito sei mesi dopo Lucky Dragon. Il film, su un mostro risvegliato e reso più forte dagli esperimenti con ordigni a idrogeno, aiutò a fissare nella mente dei giapponesi gli scenari apocalittici di un conflitto atomico, opposto alle utopie propagandate dal governo e da Washington.
L’effetto del movimento si tramutò in interventi legislativi nel decennio successivo. Il primo ministro Eitaku Satou promulgò nel 1964 i famosi Tre Principi sul nucleare. Il Giappone non avrebbe mai posseduto, costruito o permesso lo stoccaggio di ordigni atomici sul suolo nazionale. Il parlamento adottò i principi nel 1967. Nello stesso anno, cominciava la costruzione dell’impianto di Fukushima.
Da allora al 2011 non è passato anno in cui in Giappone non fosse in costruzione una centrale nucleare. Tuttavia, l’energia atomica, resa troppo costosa dalla mole di regolamenti e vincoli che gravano su di essa, non ha portato al miracolo promesso negli anni ’50. Il Paese ha continuato a importare carbone e petrolio per alimentare una fame sempre più crescente di energia. Oggi, dopo il disastro, il dibattito sul nucleare continua, tra nuove preoccupazioni e possibilità però limitate a un ruolo transitorio nella lotta al cambiamento climatico, in attesa di nuove miracolose invenzioni. Quello che è sicuro è che il futuro radioso alimentato dalla fissione rimarrà per sempre soltanto nelle pagine di un manga e in un dimenticato discorso di Eisenhower.