Una nostalgia patriarcale
La crescente esclusione maschile dalla forza lavoro sta rinforzando i ruoli di genere
L’unica identità che tradizionalmente appartiene all’uomo è quella del lavoratore - lo racconta lo studioso Victor Seidler in Riscoprire la mascolinità. L’uomo, lavoratore, che non ha bisogno di nulla dagli altri, ma da cui tutti dipendono, è un uomo virile, un vero e proprio capofamiglia - ingabbiato storicamente in uno stereotipo fatto di predominio, potere e responsabilità assoluta.
Nel suo illuminante articolo Working-class Men’s Patriarchal Nostalgia, la ricercatrice e docente Alice Evans cerca di sviscerare come i cambiamenti rivoluzionari nel mondo del lavoro abbiano implicato svolte determinanti per il patriarcato: se da un lato, l’avvento della Rivoluzione Industriale ha spazzato via la precedente interdipendenza economica tra uomini e donne escludendo queste ultime dal mondo del lavoro - elevato dunque a regno assoluto maschile - dall’altro, la crescente disoccupazione dell’oggi, l’automazione e la competizione globale stanno trasformando l’universo occupazionale in una arena brutale che esclude gli uomini, li estranea e polarizza, scagliandoli contro le colleghe, ormai reintegrate per la maggiore nel complesso mondo del lavoro.
Così, gli uomini - principalmente della classe operaia e in zone individuate in quanto utili case studies come, ad esempio, la regione mineraria dell’Appalachia - si ritrovano a fronteggiare proprio la crisi di quella identità per anni data come certa e incontestabile dell’uomo-lavoratore. L’uomo-lavoratore, come emerge dalla ricerca di Evans, tende a sparire e con lui i classici lavori da colletti blu e il loro potere economico - per citare Evans “gli uomini che un tempo svolgevano lavori da colletti blu nell'industria mineraria o manifatturiera hanno subito un calo relativo dei guadagni. Dal 1985 al 2018, gli operai hanno diminuito le probabilità di essere i capifamiglia” - portando all’insorgenza di quella che viene definita “nostalgia patriarcale”.
Secondo Evans, la nostalgia patriarcale si definirebbe come un fenomeno per cui una presunta insoddisfazione maschile causata dal trovarsi nella posizione di guadagnare meno delle donne - capace, inoltre, di determinare una minore attrattività affettiva e relazionale nei confronti di una potenziale compagna di vita - condurrebbe gli uomini-lavoratori verso un confronto a viso aperto con il proprio ego gravemente danneggiato: “i mariti delle donne capofamiglia si sentono male quasi quanto se entrambi sono disoccupati. Il mancato raggiungimento degli ideali patriarcali fa sentire gli uomini uno schifo” scrive sempre Evans, procedendo poi nella costruzione di una correlazione forte tra questi profili e la loro politicizzazione in direzione conservatrice e reazionaria.
Sembrerebbe poi esistere un continuum incontestabile tra la nostalgia patriarcale di Evans e la “crisi della mascolinità” di cui hanno parlato tanto la giornalista Susan Faludi quanto la teorica e scrittrice bell hooks. Se da un lato gli uomini più anziani ritengono, per l’appunto, che l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro li privi “dell’orgoglio di provvedere ai bisogni della famiglia”, dall’altro è importante puntualizzare quanto gli uomini fossero soggetti a forte malcontento e depressione causati dalla natura e dal ruolo del loro lavoro lungamente prima dell’avvento del movimento femminista e delle richieste di parità occupazionale che ha portato con sé.
Secondo hooks, infatti, la nostalgia patriarcale in crescita oggi e osservata poi da Evans, non sarebbe imputabile esclusivamente alla crescente presenza femminile nel mondo del lavoro affiancata da un gap salariale minaccioso e potenzialmente tendente in favore delle donne, quanto alle condizioni di sfruttamento e di subordinazione in cui versano gran parte dei lavoratori maschi americani e che contribuiscono a minare la loro autostima. Il malcontento registrato rispetto ad una maggiore occupazione femminile rappresenta solamente quello che hooks lucidamente definisce “l’aspetto esteriore della crisi della mascolinità”, che implica la contestuale presenza - spesso ignorata e sottovalutata superficialmente - di una crisi interiore. Quest’ultima si legherebbe strettamente all’impossibilità di controbilanciare il tempo dedicato al lavoro con il tempo da dedicare a “fare il lavoro dell’amore”, instaurando dunque relazioni affettive più profonde e durature con i propri cari, non mediate dall’insoddisfazione lavorativa giornaliera.
È la forza motrice del patriarcato che, nel mondo del lavoro contemporaneo, tenta i lavoratori delusi dalle condizioni spesso disumane della produttività con succulente offerte in cambio: quelle della virilità e della sconfinata possibilità di mantenere il controllo nella sfera relazionale: per quanto siano poche le ricerche capaci di correlare e studiare nel profondo fino a che punto la depressione causata dal lavoro conduca gli uomini a esercitare violenza nella vita domestica e quotidiana, più il lavoro si presenta come degradante, più l’uomo sarà spinto dalle dinamiche sociali stereotipiche a ripristinare la percezione del suo dominio.
Perché, però, dalle cronache femministe risulta colpevolmente assente un focus adeguato sulla esistente relazione tra la negazione di lavoro emotivo agli uomini in favore di un completo confinamento entro i margini nel lavoro produttivo? Perché ancora oggi voci di teoriche di colore e nere faticano ad essere considerate nella completezza e complessità della loro esperienza. La storica evoluzione del femminismo bianco vuole le donne essersi attivate prima per il diritto di voto e successivamente per il diritto ad accedere senza discriminazione alcuna al mondo del lavoro. Tuttavia, le donne cresciute in famiglie povere e della classe lavoratrice, come osserva bell hooks, “sono sempre state acutamente consapevoli del dolore emotivo degli uomini della loro vita e delle loro insoddisfazioni nel mondo del lavoro” - perché da lavoratrici discriminate e dimenticate, lo vivevano sulla loro stessa pelle.
Gli uomini-lavoratori depressi, privati della storica certezza granitica data da questa identità soffrono da soli - come ci ricorda tragicamente il personaggio di Lester interpretato da Kevin Spacey in American Beauty. Non solo, perché ce lo ricordano pure i dati forniti dal dipartimento del Lavoro sull’occupazione maschile negli Stati Uniti. Secondo i dati relativi all’inverno 2022, degli uomini in età lavorativa primaria (25-54 anni), solo l’88,5% lavora o è in cerca di un lavoro. Sessant’anni fa rientrava in questa categoria il 97% degli uomini in età lavorativa primaria. La nostalgia patriarcale di Evans può essere dimostrata anche attraverso gli studi e i ragionamenti condotti dal ricercatore Richard Reeves, secondo cui “non abbiamo dato una nuova visione positiva per gli uomini in questo nuovo mondo di uguaglianza di genere e l'incapacità di adeguare e adattare la mascolinità non avviene da sola. Credo che la nostra incapacità culturale collettiva di farlo sia una delle cause principali di alcuni dei problemi che oggi vediamo avere uomini e ragazzi”.
Gli uomini-lavoratori, dunque, non sono stati dotati degli strumenti - soprattutto emotivi - per controbilanciare il forte sentimento di essere stati “lasciati indietro”, in favore di una maggiore equità e parità di genere. La trascuratezza con cui si è trattato il difficile disadattamento lavorativo maschile ha spinto masse di lavoratori nelle braccia di chi, politicamente, crede ancora nel ruolo centrale del capofamiglia-uomo per l’intera società. Così, sono i Repubblicani a vincere nelle contee dove si registrano tassi di licenziamento maschili più alti. La nostalgia patriarcale ha, sostanzialmente, l'amaro sapore del “Make America Great Again” e dell’abbandono da parte delle Istituzioni, incapaci di riconoscere il ruolo dell’affetto e dell’amore nella vita degli uomini.
La complessa dimensione lavorativa è in continuo cambiamento, tanto negli Stati Uniti quanto nel resto del mondo, ingabbiando gli uomini nella ormai eccessivamente stringente armatura dell’uomo-lavoratore. Dentro quei confini si soffre da soli, si pagano le conseguenze della disoccupazione e ci si scontra con la realtà del crescente ingresso delle donne nel mondo del lavoro con il conseguente ribaltamento dei tradizionali ruoli di genere. L’analisi critica dei propri sentimenti avviene nei confini delle menti maschili, come nella mente di Lester, e finiscono per sentirsi ascoltati e accolti solo da pronte orecchie Repubblicane.