Una campagna da dimenticare
Pochi contenuti, toni costantemente sopra le righe ed evocazioni apocalittiche: forse è davvero questa la peggiore elezione di sempre?
Quando per far riferimento a un episodio dell’attualità statunitense si usa la locuzione “il/la peggiore di sempre” bisogna essere cauti. La storia a stelle e strisce è ricca di scandali sessuali o di corruzione, di Presidenti incompetenti o inetti, di violenza politica e persino di tentativi di golpe operati a livello locale, qualcuno anche andato a buon fine, tutto accompagnato da un livello generalmente alto di insulti e attacchi personali, sin dalla prima campagna presidenziale contesa nel 1800 che vedeva contrapposte due personalità di grande spessore come John Adams e Thomas Jefferson.
Oggi però è indubbiamente cambiato qualcosa: se pensiamo alla figura più disprezzata degli ultimi decenni, ovvero a Richard Nixon e ai suoi metodi di governo spesso accompagnati da atti discutibili e/o illegali, non possiamo fare a meno di notare come non si potesse dire alcunché sulla sua preparazione come statista: basta ascoltare una delle sue ultime interviste per capirlo.
Questa volta non è così: si è detto e scritto tanto sull’impreparazione di Donald Trump e sul tentativo fallito di istituzionalizzarne gli istinti fatto dall’apparato politico e militare a cavallo tra il 2018 e 2019. La sua retorica estremista disprezza apertamente le istituzioni liberal-democratiche e fa continui richiami a complotti immaginari e a sue questioni personali. Non pervenute idee eterodosse ma di sicuro innovative come quelle esposte durante il 2016, come la necessità di instaurare un nuovo duro confronto sui temi economici nei confronti della Cina o il famigerato muro al confine con il Messico. Tutto questo è stato sostituito con i puri istinti e il suo mero interesse personale.
Di converso, sino a pochi mesi fa, Kamala Harris non brillava per idee e iniziative, forse anche per la decisione dell’amministrazione Biden di darle un ruolo più defilato, ma è rimasta nell’immaginario la sua confusionaria campagna elettorale alle primarie presidenziali nel 2019, quando le sue idee ritagliate sui trend topic di Twitter e un caos organizzativa le fecero gettare la spugna ancor prima dei caucus in Iowa del 2020. Le cose sono cambiate, vero, è sicuramente cresciuta nel ruolo, ma è rimasta una grande vaghezza nelle sue idee e non è ben chiaro in cosa si distinguerebbero dall’articolata visione di Joe Biden. Sul piatto però c’è l’aperto negazionismo del possibile risultato elettorale da parte di Donald Trump, che già una settimana prima del voto lamentava possibili brogli in Pennsylvania, lo stato decisivo per le sorti della contesa.
Un cambiamento nefasto però è giunto ad aggravare una polarizzazione che ormai sconfina nel sinistro concetto dei “fatti alternativi”, idea coniata dalla stretta collaboratrice di Donald Trump, Kellyanne Conway. Anche molti sondaggi, soprattutto di matrice Repubblicana, sembrano assecondare questa narrativa che poggia sulla bufala delle elezioni rubate, concetto peraltro non creduto nemmeno da uno stretto alleato del tycoon come Nigel Farage che in caso di sconfitta, da lui comunque ritenuta improbabile, gli consiglia di darsi al golf. Anche lo stesso Trump riflette su una stagione per lui irripetibile nel suo ultimo giorno di comizi. Nessuno, afferma, sarà in grado di fare altrettanto dopo il 2028. In questo caso si avverte una verità di fondo, nonostante il cambiamento ideologico impresso sul Partito Repubblicano sia permanente, nessuno sarà mai come lui, con il suo carisma e la sua quasi totale incompetenza che però ha saputo catalizzare l’attenzione di ogni media e ha dato linfa vitale persino ai media avversari.
Superare questo anno sarà molto difficile, ma di sicuro, tra molti anni, questa campagna lascerà un cattivo sapore in bocca agli osservatori e agli elettori, qualunque sia l’esito.