«Questi americani hanno inventato un nuovo modo di bere. Parlo, s’intende, di un modo letterario», scriveva Cesare Pavese nel novembre del 1930, in un articolo pubblicato su La Cultura e dedicato a Sinclair Lewis, autore e drammaturgo vincitore del Nobel per la letteratura nello stesso anno (Un romanziere americano, Sinclair Lewis, raccolto in Saggi letterari, Einaudi).
«Il Nordamerica è sempre stato un Paese di bevitori eccezionali» e di personaggi che attraverso l’alcol hanno definito le loro identità letterarie: truffatori, vagabondi, marinai, galeotti, uomini scaltri abituati a costruirsi la vita giorno dopo giorno. Non è a loro, però, che Pavese è interessato: questo «nuovo modo di bere», infatti, va ricercato in romanzi come Martin Eden e in generale nella letteratura statunitense dei primi del Novecento, in cui l’alcol appare come una «forma di protesta contro un ordine sociale che soffoca e che nega la vita».
Appartengono a questa categoria, ad esempio, anche le figure dolenti delle opere di Steinbeck, o le gesta innocenti di Charlot. Proprio nei capolavori di Charlie Chaplin si delinea l’immagine dell’escluso, di chi vive ai margini perché incapace di sottostare alle regole brutali della metropoli, che tutto divora, incurante dei sentimenti e della moralità: è una nuova forma di critica, pervasiva e silenziosa, che si nasconde dietro sorrisi amari e gag frenetiche. Nella commedia La cura miracolosa (The Cure, 1917), Chaplin interpreta un uomo che vuole liberarsi dal vizio del bere: si reca, così, in un centro termale, attratto dalla presenza di un’acqua miracolosa in grado di risolvere il problema. Come spesso capita nei suoi film, una serie di sfortunate coincidenze impedisce il raggiungimento del risultato sperato; l’ambiente inoltre, si rivela inaspettatamente ostile, e il protagonista fatica a integrarsi e a capirne le regole, talvolta surreali. Chaplin sembra criticare non solo la società americana giudicata restrittiva ed escludente (di lì a poco sarebbe entrato in vigore il Volstead Act), ma anche l’incapacità di accettare e ascoltare chi la pensa in maniera diversa. Sotto accusa sono anche certe mode e manie dell’epoca, recepite in modo acritico dalla massa. Edgar Morin ritrovava nei personaggi di Faulkner, Steinbeck e Chaplin, una radice comune: ognuno a suo modo incarna l’«innocente», il «semplice di spirito», colui che «ha il dono di commuovere in modo autentico e profondo anche il bottegaio, il funzionario, l’industriale, l’ufficiale, l’impiegato e altri ancora, i quali, per i Charlot, le Gelsomine [si riferisce alla protagonista di La strada di Federico Fellini] e i Juju [Il quartiere dei Lillà, René Clair] della vita reale provano solo repulsione e timore» (Sul cinema. Un’arte della complessità, Raffaello Cortina Editore, 2021).
Il grande potere di scrittori come Sinclair Lewis e delle generazioni successive, risiede nell’aver ritrovato quel senso di soffocamento evocato da Pavese, nel cuore della provincia americana. Non sono più solo gli operai, i dimenticati, gli oppressi a raccontare il malessere sociale: esiste una nuova classe, quella dell’uomo medio, che vive in stati come il Minnesota o il Wisconsin, a cui la vita sta togliendo in qualche modo il respiro, e sono proprio loro a essere i protagonisti di un diverso rapporto con il bere: non disperato come accadeva nelle opere di Jack London, né tantomeno goliardico, ma diffuso, accettato, quasi normalizzato.
Il cinema non è da meno: è il saloon popolato di liquori, di malfattori e ribelli, ma anche di sceriffi e uomini onesti, a diventare lo scenario del punto di rottura nei grandi western. Eroi come John Wayne, amati da milioni di americani, non sono immuni da una simile narrazione: sul grande schermo sono i cowboys garanti di giustizia a cui il bere non toglie rettitudine né onestà.
«La vecchia America provinciale, schietta, semplice, profondamente onesta, legata alle più autentiche tradizioni liberali, non contaminata dall’alienazione capitalistica», rappresentava tutto ciò Gary Cooper, indimenticata star di Mezzogiorno di fuoco (Fred Zinnemann) nel ritratto che ne fece Leonardo Sciascia, in occasione della sua morte avvenuta in un giorno di maggio del 1961, a Los Angeles, lontano dalla sua città natale, in Montana. (I miti del cinema in L’Ora, 23-24 maggio 1961, Questo non è un racconto, Adelphi).
Questa immagine non sarebbe mai stata scalfita da un bicchiere.
Solo tre anni prima, nel 1959, Billy Wilder raccontò la storia di due musicisti che, per sfuggire a un gangster, decidono di indossare abiti femminili ed entrare in un’orchestra jazz di sole donne: A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot) fu un successo di critica e incasso. Il film è ambientato nel 1929, in pieno proibizionismo, e la questione del divieto del consumo di alcolici fa capolino più volte, spesso come piccola e innocente forma di ribellione. O almeno così deve essere sembrata al regista trent’anni dopo e al pubblico americano, pronto a lasciarsi alle spalle un’epoca buia, e anche a riderci su.
Fu, però, un altro regista, Blake Edwards, a raccontare poco dopo, quanto l’alcool potesse diventare distruttivo: I giorni del vino e delle rose (Days of Wine and Roses, 1961) è il primo film dedicato al problema dell’alcolismo. Due impiegati, Joe Clay e Kirsten Arnesent si sposano, ma l’apparente normalità della loro vita è divorata da un senso di vuoto, riempito presto solo dal bere.