Twitter, la voce di Dio e la cancel culture
La claudicante battaglia del nuovo capo di Twitter a tutela della libertà di espressione fermerà la promozione di un linguaggio e una società più inclusiva anche in Italia?
Aver comprato Twitter è stata una mossa economica, ma le mani di Elon Musk sul social di San Francisco ne hanno mostrato, di nuovo, la natura politica e le sue implicazioni culturali. Acquistata la famosa piattaforma di microblogging, l’uomo più ricco del mondo si è autoproclamato paladino della libertà di parola. Ha detto che quello che esce dalle bocche virtuali degli utenti ha il suono della voce di Dio. Ha interrotto la moderazione sui contenuti che riguardano il Covid. Ha riammesso gli utenti che erano stati bannati per aver condiviso messaggi d’incitamento all’odio e alla disinformazione, compreso l’ex Presidente Donald Trump. Perché? Perché «questa è una battaglia per il futuro della civiltà» ha dichiarato. «Se la libertà di parola è persa anche in America, la tirannia è tutto ciò che ci aspetta».
Il recente impegno di Musk sul free speech ha continuato un discorso che interessa gli Stati Uniti da qualche anno. Dalla ribalta del movimento Black Lives Matter, una comunità informale, composta nella stragrande maggioranza da utenti attivi sulle piattaforme social, con l’obiettivo di scardinare la mentalità razzista on e offline. Ha molto a che fare con le parole, con la censura di termini discriminatori e l’uso di un linguaggio più inclusivo. Il fenomeno si è poi esteso ad altri campi della realtà sociale per superare modalità stigmatizzanti e pregiudizievoli a proposito di genere, orientamento sessuale e disabilità.
Tuttavia, ogni battaglia linguistica è anche una battaglia politica. L’attenzione al linguaggio non si limita al divieto della n-word o della f-word. Investe l’intero modo di esprimersi in pubblico e di dare voce alla propria opinione, anche su temi polarizzanti come i vaccini. Siccome ciò che succede su Internet non ha confini nazionali, anche in Italia si parla sempre più di libertà d’espressione, politicamente corretto e cancel culture. Qui «non siamo agli orrori americani» scrive la giornalista Francesca Galici su Il Giornale, «ma non per questo la situazione nel nostro Paese risulta essere meno grave, perché di scempi, anche in Italia, ne sono piene le cronache». Quindi l’orrore, lo scempio, è vero – non si può più dire niente? Ha ragione Elon Musk: è una tirannia?
Secondo Lydia Poolgreen del New York Times, «acquistando Twitter, Musk si è travestito da guerriero della libertà di parola, ma la vera domanda ora è se questo impegno si estenda, oltre ai conservatori in America, ai miliardi di persone nel Sud del mondo che si affidano a Internet per una libera comunicazione». Il timore della stampa progressista americana, infatti, è che l’impegno del nuovo boss di Twitter nel riammettere Trump e altre personalità della destra conservatrice trasformerà il social in un «pozzo nero di violenza e disinformazione e che i potenti – governi, politici, aziende, celebrità – troveranno modo di controllarlo e manipolarlo a proprio vantaggio».
In un altro pezzo, Ryan Mac e Kellen Browning, riportando le parole di Joan Donovan, direttore del centro di ricerca Shorenstein di Harvard su media e politiche pubbliche, scrivono che «se Trump riproporrà lo stesso tipo di contenuti che condivide su Truth Social», la piattaforma su cui è emigrato in seguito alla sua sospensione, «potrebbe rendere Twitter un focolaio di odio, molestie e incitamento alla violenza», e aggiungono che «sarebbe anche una spinta per il suo personal branding perché potrebbe raggiungere un pubblico molto più ampio e influente». Al momento, infatti, solo il 27% degli americani è a conoscenza dell’esistenza di Truth Social.
Trump, dopo Capitol Hill, era stato bannato da Twitter in maniera permanente. Attraverso un tweet, Musk ha chiesto di votare in un sondaggio sulla possibilità di reintegrarlo. Sono stati registrati più di 15 milioni di voti, con quasi il 52% a favore del ritorno dell'ex presidente sulla piattaforma. «La gente ha parlato» ha poi twittato Musk, «Trump sarà reintegrato»; e ha aggiunto: «Vox Populi, Vox Dei».
«I sondaggi di Twitter sono un gioco, nella maggior parte dei casi sono divertenti», scrive Philip Bump sul Washington Post, «ma non sono un buon metodo per decidere se ripristinare account che, ad esempio, hanno inviato immagini naziste a utenti ebrei. Dopotutto, c’è un problema fondamentale: a volte il popolo dice cose pesanti con la propria voce».
Sulle conseguenze dell’acquisto di Twitter da parte di Musk, si è espressa anche la stampa italiana. Principalmente la copertura nostrana si è soffermata su fattori economici – quanto è costato, la faida con Apple e Google – e sull’organizzazione interna all’azienda – i licenziamenti dei dipendenti, via allo smart working, ecc. Soprattutto il Corriere rimanda l’argomento all’inserto LogIn dedicato a tecnologia, innovazione e scienza, mentre sono Repubblica e Il Giornale a vederci pane per le rispettive sezioni politiche.
Massimo Basile, sul giornale del Gruppo GEDI, concorda che Musk sta provando a «infiammare i sostenitori di Trump e offrirgli una piattaforma in più da cui dichiarare battaglia alla Casa Bianca», oltre a riportare lo scambio social tra Musk e Salvini, entrambi entusiasti di fissare un incontro. Il Giornale, molto duro rispetto al fratello americano per linea politica, il Wall Street Journal, tramite la penna di Giuditta Mosca dice che «i sondaggi organizzati da Musk sono una distorsione della realtà. E, soprattutto, non hanno proprio niente a che vedere con la libertà di parola tanto decantata, auspicata e difesa da Musk».
Nondimeno il punto d’incontro più marcato tra la stampa americana e quella italiana ha proprio a che fare con lo stato d’emergenza in cui sarebbe oggi la libertà di espressione. Non però, come si può ipotizzare dalle dichiarazioni sopra citate, a causa del dilagare di messaggi aggressivi e notizie false sui social, bensì per la spinta dei violenti scossoni del politically correct e della cancel culture.
Se il New Yorker ora risponde al fenomeno con sarcasmo in Ways the woke mob has affected me personally, in un primo momento ha espresso tutto il suo scetticismo sulla natura poco coesa del cambiamento: gli attivisti, scrive Benjamin Wallace-Wells, hanno lasciato le élite «profondamente incerte su quanta storia dovrebbe essere rivista, su quali tipi di misure dovrebbero essere intraprese e, soprattutto, su quante persone, davvero, vogliono un cambiamento radicale».
Il New York Times è della stessa idea. «Nel corso della loro lotta per la tolleranza», si legge in un editoriale dal titolo America has a free speech problem, «molti progressisti sono diventati intolleranti nei confronti di chi non è d’accordo con loro o esprime opinioni diverse e si servono di una sorta di ipocrisia e censura che la destra ha a lungo usato e la sinistra aborrito. Ha reso le persone incerte sui contorni del discorso: molti sanno che non dovrebbero pronunciare cose razziste, ma non capiscono cosa possono dire sull’argomento». Continua: «Il mondo sta assistendo, nella Russia di Vladimir Putin, allo strangolamento della libertà di parola attraverso la censura e la repressione del governo. Questo non è il tipo di minaccia alla libertà di espressione che affronta l’America. Eppure, qualcosa è andato perduto: il diritto di dire la propria e esprimere le proprie opinioni in pubblico senza paura di essere umiliati o isolati».
Che è un po’ l’opinione di Corrado Augias in un articolo su la Repubblica. Definiti «grotteschi» i tentativi di evitare locuzioni offensive o denigratorie, commenta che «s’è creato un clima in cui più che alla sostanza dei problemi, si bada alle parole con cui vengono espressi. Si crea in questo modo una specie di obbligo ad adeguarsi al pensiero dominante. Non è necessario l’uso della forza, basta il rischio di un’esclusione sociale».
Da noi poi si mischiano fenomeni diversi, con Dino Messina che sul Corriere afferma che «distinguere, come quasi sempre si fa, per vezzo politicamente corretto, la cancel culture dalla damnatio memoriae» è «storicamente sbagliato» poiché «i due fenomeni sono strettamente intrecciati» dato che le «classi subordinate si sono quasi sempre prestate a impersonare il ruolo di volenterose carnefici del passato».
Esiste quindi un curioso dualismo sulla stampa per cui Elon Musk è da condannare perché incita all’odio e al disordine informativo, ma lo sono anche le categorie subordinate perché, chiedendo di farsi togliere di dosso lo stigma, imporrebbero la “dittatura del pensiero unico”. Questo dualismo esiste quindi sia sulla nostra stampa che su quella oltreoceano perché tutti i media fatti dai giganti di carne e di sangue hanno potere limitato sui luoghi in cui il linguaggio sta cambiando. Il cambiamento sta accadendo altrove, nel cyberspazio, la dimora degli utenti.
La stampa ha timore di perdere il controllo sulle parole a causa di due opposti fenomeni: la legittimità a dire tutto, a condividere ogni singolo pensiero ci attraversi la testa, il più aggressivo, il più offensivo, senza regole e senza ritorsioni, e il suo contrario – non poter dire niente, non perdonare, cancellare, chi ha pronunciato, digitato, il tabù. Questi fenomeni estremi però, a dirla tutta, dilagano per lo più altrove – sui media digitali – il che dice molto sul ruolo che hanno oggi i media tradizionali, i quali inseguono trend e fenomeni linguistici e culturali che arrivano su carta solo in un secondo momento, quando il cambiamento è già stato avviato. La stampa può decidere solo se subirlo o se fargli resistenza, mentre gli dei – gli utenti – decidono che fare della propria libertà di parola.