Trump Jam: la guerra di Donald Trump contro il mondo del basket
Il Tycoon, storico appassionato di basket NBA, si è schierato contro la lega di pallacanestro più famosa al mondo per l'attivismo dei suoi giocatori.
La presidenza di Donald J. Trump ha sempre nutrito una particolare attenzione per lo sport. Trump si è attorniato più volte dei campioni del momento, una tradizione presidenziale di lunga data: era il 1865 quando l’allora presidente Andrew Johnson accolse alla Casa Bianca una delegazione dei Washington Nationals, squadra di baseball dilettante nata proprio nella capitale statunitense. Nel 1963, John Fitzgerald Kennedy si intrattenne con i suoi amati Boston Celtics, campioni del basket e beniamini della comunità irlandese negli Stati Uniti. Nel 1980, fu il turno del football, con gli Steelers di Pittsburgh invitati da Carter per celebrare la vittoria di Super Bowl XIV.
L’idillio trionfalistico-sportivo di Trump è però sùbito incorso in un blocco chiamato NBA. I campioni della principale lega di basket nordamericana si sono rifiutati a più riprese di essere ospitati dal quarantacinquesimo presidente. In questa lista figurano per due volte di fila i Golden State Warriors, ma anche i Toronto Raptors, franchigia che in virtù della propria locazione geografica ha preferito visitare il parlamento canadese, snobbando la Casa Bianca. Chiudono infine i Lakers, vincitori dell’edizione 2019-2020 del campionato, accorciata dalla pandemia mondiale di COVID-19. LeBron James, giocatore simbolo della squadra e cestista di fama mondiale, non ha mai nascosto il suo forte astio per Trump.
Le ragioni vanno ricercate prima di tutto nella brand identity dell’NBA, a sua volta un prodotto della lunga storia della pallacanestro in America. È il 1950 quando l’allora giovanissima National Basketball Association, nata quattro anni prima dalla fusione con la rivale National Basketball League, pone fine alla segregazione sportiva del proprio campionato, permettendo alle franchigie partecipanti di assumere ed allenare giocatori afroamericani.
I mondi separati e non comunicanti del ‘basket nero’ e del ‘basket bianco’ cessano di esistere, e la facile accessibilità dello sport in termini materiali permette a tanti afroamericani di costruirsi una carriera nella pallacanestro. Gli anni Ottanta e Novanta dell’NBA sono segnati da campioni del calibro di Julius Erving, Earvin “Magic” Johnson, Charles Barkley e l’intramontabile Michael Jordan, star del fortunato film Space Jam. L’NBA modella la sua immagine per rivolgersi ad audience prevalentemente urbane, afroamericane ma anche ispaniche, lo zoccolo duro del suo pubblico.
La comunità afroamericana è, a sua volta, anche uno dei principali serbatoi di voti del Partito Democratico statunitense, tendenza iniziata già alla fine degli anni Quaranta e solidificata dal passaggio del Civil Rights Act del 1964 fortemente voluto da Lyndon B. Johnson.
La pesante enfasi dell’amministrazione Trump su temi cari alla destra radicale e la mano fin troppo leggera delle autorità federali verso gruppi estremisti legati alle nuove realtà altright o al suprematismo bianco hanno contribuito ad acuire l’astio della cosiddetta Black America verso la presidenza, culminato nelle accese proteste del 2020 in risposta all’uccisione dell’afroamericano George Floyd per mano del poliziotto bianco Derek Chauvin. Gli atleti NBA hanno subito preso iniziativa, per esempio imitando il controverso gesto dell’inginocchiamento durante l’inno nazionale reso famoso anni prima dal quarterback NFL Colin Kaepernick, o rendendosi portavoce diretti delle istanze del movimento Black Lives Matter, come nel caso del sopracitato LeBron James.
Forme di attivismo poco gradite da Trump, che ha visto in tutto ciò l’ennesima occasione per scatenare una guerra culturale, accusando l’NBA di essere eccessivamente politicizzata e di mancare di patriottismo, attribuendo a tali scelte ideologiche ‘radicali’ il progressivo declino di spettatori del campionato.
Diversi alleati di Trump quali il senatore Tom Cotton dell’Arkansas hanno inoltre accusato l’NBA ed i suoi sponsor di avere un comportamento ipocrita nei riguardi della Cina, mercato dove la lega si è fortemente espansa, organizzando tournee delle sue franchigie più popolari e stabilendo scuole di pallacanestro.
Un’ipocrisia, quella sui diritti umani, più volte criticata anche dal cestista di origini turche Enes Kanter Freedom, protagonista di un accesa faida social con LeBron sul tema del genocidio uiguro.
Al netto dei giri di accuse reciproci e dell’apparente tendenza progressista del campionato una semplice sbirciata ai dati raccolti dalla Federal Electoral Commission, l’organo governativo incaricato di monitorare e catalogare le donazioni dei privati ad enti politici e comitati elettorali, rivela un ingente quantità di donazioni da parte dei proprietari delle franchigie NBA alla campagna Trump, tra cui spiccano quelle di Tilman Fertitta, proprietario degli Houston Rockets più volte critico delle dichiarazioni del presidente contro la sua lega sportiva, almeno in pubblico. Segno che il posizionamento spiccatamente pro-business della precedente amministrazione statunitense, ma soprattutto le sue politiche fiscali volte ad agevolare gli strati più ricchi della popolazione hanno facilmente conquistato l’anima più spregiatamente corporate dell’NBA.
L’elezione di Joe Biden ha comunque messo fine anche al lungo iato delle visite alla Casa Bianca, ricominciate a novembre 2021 con i Milwaukee Bucks. In tal frangente, Biden ha lodato l’attivismo dei Bucks, coinvolti in campagne per sensibilizzare la popolazione riguardo all’epidemia COVID e promuovere le vaccinazioni nella comunità afroamericana, colpita in modo sproporzionato dagli effetti della pandemia.
Nonostante tutto, il peso culturale dell’NBA e le conseguenze politiche derivanti da esso sono difficilmente ignorabili.