Trump è davvero il Presidente degli operai?
Che Donald Trump voglia essere percepito come il difensore della classe operaia – bianca, soprattutto – è poco ma sicuro. È davvero così? Cosa dicono i dati?
Donald Trump, il presidente degli operai. O, perlomeno, è l'etichetta che l'ex presidente vorrebbe appiccicarsi da solo. Dopotutto, quello della centralità del voto operaio è un cliché utile per qualsiasi pretendente alla Casa Bianca, cruciale per dimostrare al Paese di avere un forte sostegno popolare e di essere quindi "autorizzato" a portare avanti le proprie politiche. Magari concedendosi anche qualche forzatura.
Che poi si tratti di politiche davvero a favore della working class, è tutto da vedere.
Qualcuno pensi a chi lavora
Fin dagli albori della sua campagna presidenziale del 2016, Trump ha fatto appello alle paure degli operai in merito ai trattati di libero scambio, alla disoccupazione e al pessimismo sul futuro dell’economia americana. Questo messaggio ha funzionato in particolar modo nelle regioni industriali del Midwest e della Rust Belt, dove l'industria manifatturiera aveva subito le ricadute più dure di due fenomeni che, insieme, hanno messo in seria crisi interi settori dell'industria americana.
Il primo si riassume nei trattati di libero scambio, e nel NAFTA (North American Free Trade Agreement) in particolare. Sebbene l'economia statunitense nel suo insieme abbia beneficiato dell'accordo nel corso degli ultimi trent'anni, era inevitabile che alcuni settori ne venissero investiti. Questo trattato, che ha creato una zona di libero scambio tra USA, Canada e Messico, ha avuto un impatto significativo in particolare sull'industria manifatturiera, divenuta improvvisamente più conveniente da realizzare altrove.
Il secondo è rappresentato da uno dei cavalli di battaglia dei Democratici, la lotta al cambiamento climatico, che ha impattato in maniera significativa sull'industria dei combustibili fossili. Una delle più colpite è stata la filiera del carbone, fonte energetica molto inquinante che però forniva un reddito a migliaia di lavoratori americani del settore.
Trump ha saputo cogliere queste vulnerabilità.
Make America autarkic (and polluting) again
La strategia del 2016 è stata semplice e vincente, attirando il voto operaio con la promessa di "riportare i posti di lavoro a casa". La retorica anti-globalizzazione di Trump, unita alla sua enfasi sulla riduzione delle regolamentazioni aziendali, ha creato l'immagine di un leader che si impegna a sostenere l'industria e la forza lavoro americana.
La percezione di Trump come un outsider della politica tradizionale ha attirato gli operai che si sentivano trascurati dalla classe politica, democratica in particolare. La sua personalità diretta e il suo stile di comunicazione non convenzionale hanno contribuito a creare un legame emotivo con gli elettori della working class, che cercavano un cambiamento radicale dopo i due mandati di Barack Obama.
Oltre a ciò, la posizione ambigua sulla lotta al cambiamento climatico e la promessa di uscire dagli Accordi di Parigi ha fatto deragliare la narrazione democratica, per la quale non si potevano fare passi indietro su quel campo.
I lavoratori del settore ne sono stati entusiasti. D'altronde, di fronte a una politica che non era stata in grado di fornire alternative, è comprensibile che tra il rispetto dei trattati sul clima e la capacità mettere il pane in tavola, la stragrande maggioranza delle persone scelgano la seconda opzione nonostante sia dannosa per la collettività.
Il sostegno operaio a Trump non è stato però uniforme in tutto il paese. Le già citate aree rurali e industriali del Midwest e della Rust Belt hanno dimostrato un discreto sostegno per il Presidente, ma ci sono state variazioni significative in altre regioni. Ad esempio, negli stati con una forte presenza di settori tecnologici e creativi, Trump ha incontrato una netta resistenza. Oltre a ciò, Trump si è concentrato in particolar modo sul voto operaio bianco, trascurando quello latino e degli afroamericani, i più colpiti dai trattati sul libero commercio.
Una vittoria di Pirro
Questi posizionamenti sono stati vincenti, nel 2016, ma si è trattato di un gioco pericoloso, che funziona solo se a proporlo è un outsider, che può quindi promettere mari e monti perché alle spalle non ha nessuna storicità politica su cui fare raffronti.
Tuttavia, quando si vince si deve dimostrare che le promesse vengono realizzate, e che funzionano.
La guerra commerciale con la Cina e in misura minore con l'Europa, nonché la resistenza all'applicazione dei trattati sul clima, hanno isolato gli Stati Uniti. La stipula di un nuovo trattato – lo USMCA – in sostituzione del NAFTA, apportando poche e pressoché ininfluenti modifiche, ha poi deluso molti suoi sostenitori. Infine, la gestione della pandemia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La sconfitta alle elezioni del 2020 e il tentativo di sovvertire l'ordine democratico con l'assalto al Campidoglio del 6 gennaio hanno fatto il resto.
Dati vs narrazione
La domanda da porsi è, tuttavia, se questo consenso operaio di cui si vanta Trump è reale. I dati, purtroppo per lui, sono inclementi.
Come riportano i ricercatori Nicholas Carnes e Noam Lupu sul Washington Post, quella di Trump è più narrazione che verità.
In primo luogo, tra gli elettori del Partito Repubblicano la percentuale dei bianchi appartenenti alla working class è rimasta costante almeno dal 2012 in poi. Parliamo del 31%, ben lontano dall'essere maggioranza. Nessuna impennata, quindi.
In secondo luogo, l'idea che Trump abbia rivoluzionato l'approccio repubblicano facendo aumentare i voti degli operai bianchi a favore del GOP è falsa. Anzi, è vero il contrario: il Partito Repubblicano ha aumentato la propria penetrazione in questo specifico elettorato in maniera costante fin dal 1992 (fatto salvo il 2008, con il boom di Obama). È, invece, proprio con Trump che questo trend si è congelato, invertendo addirittura il segno dal 2020.
Il falso profeta
Il fenomeno legato al supporto operaio a Donald Trump è intrigante, con radici nelle sfide economiche e nella percezione dell'outsider. Come abbiamo visto, il voto operaio non è monolitico, ma varia in base a fattori geografici, settoriali e demografici.
La definizione stessa di voto operaio è addirittura fuorviante: definire chi ne fa parte e chi no non è affatto semplice e molto spesso le rilevazioni statistiche si basano unicamente su reddito e titolo di studio, due variabili non abbastanza specifiche. Pensiamo a un laureato a basso reddito, o a un operaio specializzato ad alto reddito.
Sta di fatto che la narrazione del "Presidente degli operai" ha fatto molta presa sulla stampa, creando una echo chamber che a forza di ripetere il concetto l'ha reso una convinzione comune.
È innegabile che Trump abbia esercitato un certo fascino sulla classe operaia di determinate aree geografiche, attratta dalle promesse di un'economia più forte e dalla sensazione di essere ascoltati da un leader non convenzionale. Salvo poi rivelarsi un falso profeta, incapace di migliorare la situazione della working class e riducendosi a puntellare la propria credibilità con una narrazione fuorviante, non sostenuta dai dati.
Mentre l'eredità di Trump continua a essere oggetto di dibattito, il suo rapporto con il voto operaio rimane un punto di interesse nella comprensione del panorama politico contemporaneo. Di una cosa, infatti, possiamo essere certi: verrà studiato molto a lungo.