Trump continua ad insultare le giornaliste perché le parole non significano più nulla
Nell'universo Maga ogni frase rientra nell'ambito dell’ammissibile
«Silenzio, porcellina!», detto dal presidente degli Stati Uniti a una giornalista, un tempo avrebbe creato un grosso scandalo. Oggi è normale amministrazione.
Quel «quiet, piggy», con cui Trump ha apostrofato Catherine Lucey di Bloomberg, è solo uno dei commenti con cui il presidente si è scagliato contro diverse giornaliste che hanno posto domande o mosso critiche nei suoi confronti nelle ultime settimane. E Trump ha una preoccupante tendenza ad attaccare la stampa, ma nei confronti delle giornaliste nutre una particolare ira. «Brutta», «stupida», «sei una persona terribile». Lo dice di fronte alle telecamere, in diretta nello Studio Ovale, lo scrive su Truth. Non si fa problemi. Sa che può dire qualsiasi cosa.
«Passo dopo passo, il presidente Trump ci ha reso insensibili alla sua rozzezza e crudeltà, facendo sembrare anacronistici onore e integrità», ha scritto Maureen Dowd in un editoriale del New York Times. «È stato nauseante, se non sorprendente. È stato misogino». Lucey stava incalzando Trump sulla pubblicazione dei file su Epstein che avrebbero potuto ulteriormente implicare il presidente nello scandalo. Lui l’ha interrotta. Le ha puntato il dito in faccia: «Silenzio! Silenzio, porcellina».
Non c’è nessuna differenza tra una conferenza stampa e un thread su X. Il presidente degli Stati Uniti si esprime come un troll di internet. Bullizza i suoi oppositori attaccandone l'aspetto e lanciando epiteti e soprannomi sgradevoli e profondamente personali. Nell’universo Maga il discorso politico funziona così, secondo le regole della manosfera: è machista e adolescenziale. Se un giornalista ha l’ardire di chiedergli conto delle sue azioni, il presidente fa una battuta o lancia un insulto. Le comunicazioni istituzionali diventano il luogo in cui imporre la propria sopraffazione.
La portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha poi spiegato: «Il fatto che il presidente sia franco, aperto e onesto con voi, invece di nascondersi alle vostre spalle, è molto più rispettoso di quanto abbiate visto nella scorsa amministrazione». Dowd commenta: questa spiegazione è «assurda», «alcuni momenti sono sconvolgenti, oltre ogni limite. Qualunque sia ormai il limite».
Il limite non esiste, non significa niente. Katie Rogers, corrispondente del New York Times, è finita nel mirino di Trump per essere stata coautrice di un articolo in cui si parla del fatto che sia un presidente anziano. Che è poi la stessa critica che i sostenitori di Trump muovevano a Biden. Ma nulla significa nulla. La firma di Rogers sull’articolo si trovava accanto a quella di un altro giornalista, Dylan Freedman. Trump non ha menzionato il coautore dell’articolo, ma ha definito la giornalista «di terz’ordine» e «brutta, dentro e fuori».
Il New York Times ha difeso Rogers e l’articolo: «È accurato e si basa su resoconti fattuali di prima mano. Offese e insulti personali non cambiano questo fatto, né i nostri giornalisti esiteranno a coprire questa amministrazione di fronte a tattiche intimidatorie come questa», ha dichiarato un portavoce. «Giornalisti esperti e scrupolosi come Katie Rogers esemplificano come una stampa indipendente e libera aiuti il popolo americano a comprendere meglio il proprio governo e i suoi leader».
Eppure, sono proprio i giornalisti che vogliono scavare a ricevere il trattamento peggiore. Mary Bruce, corrispondente di ABC News, è stata definita da Trump «una persona terribile e una giornalista terribile». Bruce aveva chiesto al presidente, che ospitava il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman nello Studio Ovale, dell’omicidio del 2018 dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi: un rapporto dell’intelligence pubblicato dall’amministrazione Biden aveva concluso che era stato proprio bin Salman a ordinare l’assassinio del giornalista. Trump ha accusato Bruce di aver messo in imbarazzo il principe ereditario con la sua domanda «orribile» e «insubordinata».
«Quando i giornalisti pongono domande difficili sull’omicidio di un collega giornalista, non è imbarazzante. Ciò che è imbarazzante è un leader che cerca di mettere a tacere queste domande», si legge in una nota della Society of Professional Journalists. La più antica organizzazione che riunisce e rappresenta i giornalisti degli Stati Uniti ha condannato i recenti attacchi di Trump alla stampa, affermando che non erano isolati e che, anzi, «facevano parte di un inequivocabile schema di ostilità – spesso rivolto alle donne – che mina il ruolo essenziale di una stampa libera e indipendente».
Ma la guerra di Trump contro la stampa è in estensione. Il sito della Casa Bianca ha lanciato anche una pagina web dedicata a denunciare e svergognare i media e i giornalisti che pubblicano articoli con cui non è d’accordo: una hall of shame per «media trasgressori, fuorvianti, parziali, smascherati». Non è solo un’intimidazione: è un’affermazione di potere, il potere di non rispondere di niente a nessuno. Facciamo quello che ci pare. Non importa cosa raccontano i media. Sono parziali. Sono degli stupidi.
Infatti, quando Nancy Cordes di CBS chiede a Trump informazioni su Rahmanullah Lakanwal, il sospettato della sparatoria di due membri della Guardia Nazionale a Washington, D.C., il presidente le chiede: «Ma sei stupida?». Lakanwal è un cittadino afghano che è stato ammesso negli Stati Uniti sotto l’amministrazione Biden e ha ottenuto asilo sotto l’amministrazione Trump. Cordes ha sottolineato che l’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia ha scoperto che gli afghani entrati negli Stati Uniti dopo la caduta di Kabul nel 2021 erano stati sottoposti a controlli approfonditi. Ha chiesto al presidente: «Allora perché dà la colpa all’amministrazione Biden?». E Trump l’ha ridicolizzata, è scattato: «Perché lo hanno lasciato entrare. Sei stupida? Sei una persona stupida? Perché sono arrivati in aereo, insieme a migliaia di altre persone che non dovrebbero essere qui, e tu fai domande solo perché sei una persona stupida».
È un’umiliazione personale. È un progetto di smantellamento della credibilità dei giornalisti, e quindi della democrazia. È reiterato ed è senza freni. Nell’America trumpiana ogni parola rientra nell’ambito dell’ammissibile e viene pronunciata senza timore delle conseguenze, come se non avesse peso.
Quando durante il loro incontro a Washington chiedono a Zohran Mamdani se pensa ancora che Trump sia un fascista, prima che il nuovo sindaco di New York possa rispondere, è Trump stesso a dire: «Puoi dirlo, va bene». Puoi dire che sono fascista. Non significa niente. Puoi dire qualsiasi parola. Nulla significa più nulla.



