Thelonious Monk: la consapevolezza di essere estraneo
Una monumentale biografia racconta la vita e la musica del grande musicista. Sullo sfondo una New York che cambia, le discriminazioni e le violenze.
«Da quel momento ad allevarlo avrebbero provveduto sua madre, e New York». Finisce con queste parole il secondo capitolo della monumentale e accurata biografia Thelonious Monk. Storia di un genio americano scritta dallo storico Robin D.G. Kelley e pubblicata in Italia da minimum fax con la traduzione di Marco Bertoli.
Quando nel 1922 Thelonious abbandona la Carolina del Nord per trasferirsi nella Grande Mela, è un bambino di appena quattro anni. Insieme alla madre Barbara, alla sorella Marion, di due anni più grande, e al fratello Thomas, di due anni più piccolo, arriva alla stazione centrale, sale su un tram e viene travolto dalla confusione della città .Â
Senza l’incontro con quell’ammasso di acciaio, di cemento e di mattoni, senza quelli che il filosofo Marshall Berman considerava i simboli del modernismo, Monk probabilmente non sarebbe diventato il musicista che tutti conosciamo. La sua vita newyorkese (dopo una fugace parentesi nella Sessantreesima Ovest) ha inizio a San Juan Hill, il quartiere che deve il nome ad «alcuni reduci neri della Guerra ispanoamericana che si erano stabiliti lì», e in ricordo di una delle battaglie più celebri di quel conflitto, avvenuta nella collina di San Juan, a Santiago di Cuba, e combattuta dai Buffalo Soldiers, i reggimenti interamente composti da soldati afroamericani.
Almeno è questo il motivo ufficiale: di fatto, spiega Kelley, il nome serviva a sottolineare la fama di quartiere degradato e violento e in perenne lotta con altre zone. «Alveari umani, crivellati di stanzette zeppe di esseri umani. Camere da letto si aprono su pozzi di ventilazione che non lasciano entrare un alito di vento, solo aria sudicia troppo spesso carica di germi contaminanti»: sono le parole (riportate da Kelley) di Mary White Ovington, attivista e assistente sociale che nel 1969 descrive le case popolari di San Juan Hill di quegli anni.
È qui che Thelonious Monk cresce, tra disordini sociali e razziali, e un’umanità giovane, affamata di giustizia e di un futuro, fatta perlopiù di domestiche e operai. «Eravamo costretti a lottare anche solo per poter camminare per strada», racconterà tempo dopo. La questione razziale, le discriminazioni e la violenza, entreranno più volte nella sua vita: un paradosso, per lui che amava stare in disparte, e che fece della solitudine il suo marchio di fabbrica, personale e stilistico.
Iniziò a suonare per caso, osservando le lezioni di pianoforte che solo la sorella Marion prendeva a casa: con pochi soldi in famiglia, la prescelta a diventare pianista era lei. Tuttavia, la fame di Thelonious era tale da permettergli di imparare rapidamente e più degli altri. Sarà proprio la fame, oltre alla solitudine, a segnarlo per tutta la vita. Nel 1948, ormai musicista affermato, venne arrestato una prima volta per possesso di stupefacenti e condannato a un mese di carcere alle Tombe, così veniva chiamato il Manhattan House of Detention. Trenta giorni in una «minuscola cella singola immersa nell’afa soffocante di luglio e agosto», senza pianoforte, senza musica e col rispetto severo degli orari del carcere: un’agonia per lui, abituato a non avere regole. Una volta uscito le cose non migliorarono: insieme alla moglie, Nellie, «vivevano di spaghetti e polpette, raccoglievano le monete del deposito delle bottiglie vuote e scroccavano le sigarette ad amici e parenti». Tre anni dopo, nel 1951, si trovò di nuovo nei guai con la giustizia: la polizia lo fermò mentre era in macchina con Bud Powell, che aveva addosso un po’ di droga, e lo arrestò. L’episodio è magistralmente raccontato anche da Geoff Dyer, nel libro Natura morta con custodia di sax (Il Saggiatore, 2019, trad. Riccardo Brazzale e Chiara Carraro), in cui lo scrittore britannico traccia un ritratto di Monk che è al tempo stesso letterario e realistico: «Suonava ogni nota come se non si fosse ancora ripreso dalla precedente, come se ogni tocco sulla tastiera correggesse un errore e a sua volta diventasse un nuovo errore da correggere». La sua ossessione per gli errori, gli sbagli, per le storture dell’anima e della vita lo porterà a vivere la musica come un caos nel quale ritrovare una logica, un equilibrio invisibile agli altri, eppure sempre (e da sempre) intimamente presente in lui. Seppur visto da tutti come incostante, insofferente alle regole e inaffidabile, Monk, in realtà , lavorava in maniera quasi maniacale, finendo, a volte, per abbandonare qualsiasi contatto con la realtà che lo circondava.
Una delle cose migliori scritte sul jazz appartiene a Winton Marsalis, trombettista nato nel 1961 a New Orleans e cresciuto in una famiglia di musicisti. In Come il jazz può cambiarti la vita (Feltrinelli, 2017, trad. Edoardo Fassio) spiega che il potere di questo genere di musica risiede nella sua capacità di accogliere e trasformare le più grandi paure dell’uomo: il tempo, l’errore e l’estraneità . Non era allora raro, racconta, vedere che i jazzisti amavano frequentare «tutte quelle persone strane che in altri ambienti sarebbero stati degli emarginati. Sembrava che ci fosse posto per tutti [...]». Anche per uno come Thelonious Monk, che fin da piccolo aveva capito cosa significava sentirsi estranei e diversi persino in un quartiere di afroamericani, dove ognuno, in base alla provenienza, era in lotta con gli altri. La sua immagine, imponente e ricercata, arricchita dagli occhiali rotondi e dai cappelli strani, sovrastava il suo talento. O meglio, lo modificava: guardandolo dal vivo non si può fare a meno di osservare le mani giganti che picchiano i tasti, i piedi che battono il tempo, il corpo che si muove a un ritmo e in un luogo diversi. «Riusciva così bene a essere sé stesso da invogliare gli altri a provarci anche loro», scrive Marsalis.
E il suo più grande insegnamento fu proprio questo: non rinnegare mai chi si è, neppure quando il mondo ti vuole convincere del contrario. La sua vita è la dimostrazione che molto accade quando si è in bilico, sulla soglia delle cose o intorno ad esse: in prigione, in isolamento, in attesa di un ingaggio, o ’Round Midnight, quando la notte newyorkese mostra il vero volto, un insieme dissonante di solitudini e rimpianti.Â