"The Flag Must Stay Put"
L'imperialismo americano nelle Filippine e il boomerang della violenza coloniale

Secondo la definizione di John R. Seeley nel suo celebre The Expansion of England, i britannici avevano conquistato e popolato “half of the world in a fit of absence of mind”. Un accesso di distrazione. Questo giudizio sarebbe stato ulteriormente articolato, ma sostanzialmente fatto proprio, da Ronald Robinson e John Gallagher nell’altrettanto influente Africa and the Victorians: ivi si argomentava, ad esempio, come il progressivo coinvolgimento di Londra in Egitto e, a cascata, la penetrazione in Africa Orientale lungo la valle del Nilo, si fossero consumati contro il solido orientamento antimperialista del gabinetto Gladstone. Dal 1961, anno di pubblicazione della prima edizione del libro, questa posizione è stata oggetto di una critica sempre più serrata che ha rivelato come insostenibile l’idea che la conquista britannica dell’Egitto fosse imposta a Londra da circostanze esterne e non già da solidi motivi di interesse; d’altronde, pur ammettendo l’esistenza di dinamiche che sfuggivano al controllo di Gladstone, l’invasione non costituiva certo l’unico modo di confrontarsi col governo nazionalista di Orabi Pasha.
La teoria dell’accesso di distrazione negli affari coloniali continua, tuttavia, a riscuotere un certo successo, a maggior ragione nello spiegare le ragioni di un fenomeno all’apparenza ancora più contraddittorio come l’imperialismo degli Stati Uniti: una potenza i termini della cui dimensione “imperiale” si fatica ancora oggi a fissare, preferendo sovente ripiegare sulla formula dell’impero informale. Se la posizione di predominio conseguita dagli USA nei Caraibi, all’indomani della guerra ispano-americana, poteva ancora essere considerata come logica dilatazione della Dottrina Monroe – con Washington impegnata non più a sventare l’intrusione delle potenze europee nello spazio americano, ma anche a colmare il vuoto con un proprio imperialismo – la conquista delle Filippine appare a tutta prima come una sorta di aberrazione.
A un secondo esame, nondimeno, essa si rivela del tutto conseguente. Storicamente e geograficamente questa si pose a coronamento della penetrazione statunitense nel Pacifico che vide come tappe fondamentali il rovesciamento del regno delle Hawaii nel 1893, indi annesso nel 1898; e la spartizione fra Stati Uniti e Germania delle Isole Samoa nel 1899. Ideologicamente, già Douglas Porch ha sottolineato la continuità in termini di “ambiguità morale e tattiche brutali” fra le guerre indiane e l’avventura coloniale nelle Filippine, un Paese presto percepito alla stregua di una nuova frontiera aperta all’intraprendenza dei pionieri americani: “The Farthest Frontier”, secondo la definizione datane dal Mindanao Herald del 17 febbraio 1906.
Il mito della nuova frontiera finì per acquisire particolare rilevanza nel sud delle Filippine, là dove i territori della nuova Moro Province istituita nel 1903 non erano mai stati assoggettati stabilmente dagli spagnoli, né investiti dalla colonizzazione “clericale” che aveva interessato il resto dell’arcipelago; e si presentavano, pertanto, come una sorta di territorio vergine, ricettivo agli esperimenti di ingegneria sociale del nuovo governo coloniale. I filippini, ambiguamente percepiti in parte alla stregua di fanciulli incapaci di governarsi nella loro eterna minorità, in parte come latori di pericolose forme di corruzione fisica e morale, ma sempre e comunque inferiori agli occhi dell’ideologia razzistica dell’epoca, non andavano semplicemente disciplinati e governati: in accordo col White Man’s Burden evocato da Rudyard Kipling nel medesimo torno di tempo (1899) essi andavano radicalmente riformati nei costumi e tradotti verso un più alto stadio della civiltà. Un processo cui era consustanziale, come osservato da Warwick Anderson, l’applicazione di forme di biopolitica dura nel disciplinamento dei corpi, delle abitudini, delle stesse funzioni vitali.
Non che questo processo fosse esente da cortocircuiti; invero, esso era affetto da una fondamentale contraddizione. Nel 1898 gli USA erano scesi in guerra contro la Spagna soprattutto sull’onda del pubblico oltraggio suscitato dai metodi di contro-insurrezione impiegati dagli spagnoli a Cuba: nel tentativo di stroncare la rivolta dell’isola, il generale Valeriano Weyler, già protagonista della repressione degli indipendentisti baschi e filippini, aveva inaugurato una feroce politica di reconcentración. Nel tentativo di isolare i guerriglieri almeno 300.000 contadini erano stati deportati; di questi almeno 170.000 erano morti di stenti o di malattia nei campi di detenzione. Ironia della storia, dopo un primo tentativo di pacificazione delle Filippine riassumibile in una goffa applicazione di politiche del genere hearts and minds, le forze statunitensi sarebbero rapidamente passate all’applicazione di quegli stessi metodi duramente denunciati nel caso di Weyler. Ancora una volta, onde isolare e affamare gli insorti, si procedette a drastiche politiche di concentrazione della popolazione, di indiscriminata tortura dei sospetti, di distruzione dei villaggi, di devastazione dei campi e confisca degli armenti, così riproponendo il modello delle razzie inaugurate dalle truppe francesi di Bugeaud in Algeria. Stime conservative fissano i morti a 10-20.000 per i guerriglieri caduti in combattimento e ad almeno 200.000 per i civili, ancora una volta falcidiati dalla fame e dalle epidemie. Un calcolo più accurato risulta impossibile, ma è certo che i 7 milioni e 500.000 abitanti attestati dall’ultimo censimento spagnolo del 1887 si erano ridotti a 5 milioni e 900.000 all’epoca del censimento del 1903. A queste cifre andrebbero sommate le vittime dell’estenuante Moro Rebellion di Mindanao e Sulu, prolungatasi fino al 1913 e per la quale non esistono nemmeno stime approssimative.
Se la brutalità delle forze di occupazione era stata tale da pregiudicare la legittimità del governo coloniale – come testimoniato dal col. Cornelius Gardiner, primo governatore di Tayabas, in un’audizione di fronte al Congresso nel 1902 – essa non costituì tuttavia l’unico frutto dell’albero avvelenato. Come sottolineato da Alfred McCoy nel suo Policing America’s Empire, il consolidamento del controllo sulle Filippine si rivelò il volano per l’ascesa del moderno surveillance state americano. Le small wars coloniali ponevano l’accento sul processo di raccolta e weaponisation delle informazioni non meno delle moderne teorie di contro-insurrezione, in buona parte rivisitazione dei metodi impiegati dai francesi di Lyautey e Gallieni nel Tonchino della fine dell’Ottocento. Nel dicembre del 1900 il Bureau of Insurgent Records, creato dal comando militare di Manila, venne riorganizzato nella Division of Military Information (DMI). Sotto la guida del cap. Ralph van Deman, esso divenne un temibile strumento al servizio dell’amministrazione coloniale, in cui la capillare raccolta di informazioni era volta alla repressione del dissenso e alla sistematica manipolazione delle élites filippine tramite l’infiltrazione dei gruppi nazionalisti e il ricorso alla violenza e al ricatto. Tale esperienza non era destinata a restare senza conseguenze, col ritorno di van Deman in patria e la sua nomina a capo della Military Intelligence Division (MID), una moderna agenzia di sorveglianza interna dedita alla schedatura dei nemici dello Stato veri o presunti. Nemmeno il congedo nel 1929 di van Deman e il progressivo smantellamento dell’intelligence militare avrebbe messo fine alla sua influenza: l’ampio schedario del MID, ad esempio, sarebbe stato ereditato con profitto dall’FBI di J. Edgar Hoover. In tal senso la nascita del moderno surveillance state nelle Filippine e la sua reintroduzione nella madrepatria costituiscono un ottimo esempio di quel “boomerang effect” evocato da Hannah Arendt nel suo The Origins of Totalitarianism: la violenza imperialista si produce nello spazio anomico delle colonie ma, lungi dal rimanervi confinata, essa tende costantemente di percolare nel territorio metropolitano, erodendone lo stato di diritto. Il retaggio di tale violenza risulta ancora più vivo qualora si voglia considerare van Deman non soltanto come il padre della “american blacklist”, ma sopratutto come un “phobic nativist” dedito all’accanita sorveglianza di individui considerati infidi su basi puramente razziali: dai filippini agli ebrei tedeschi, agli italiani, ai giapponesi. Quantunque l’oggetto delle sue ossessioni razziste sia frattanto cambiato, il nativismo costituisce ancora una delle anime dell’estrema destra statunitense.
Guardando oggi agli Stati Uniti dal punto di vista della sua ex colonia, conviene chiedersi se il retaggio coloniale si esaurisca nella parabola del surveillance state. Già nel 2016 Maria Ressa, futuro premio Nobel per la Pace e fondatrice di Rappler, media indipendente sottoposto nelle Filippine a costante pressione governativa, metteva in guardia contro una “Filipinization of the American democracy” fatta di una crescente fascinazione per i modelli autoritari e una degradazione delle regole democratiche. Vi si potrebbe aggiungere un progressivo smantellamento dello Stato federale per lasciare campo libero a quei “rogue billionaires” già denunciati quale potenziale minaccia asimmetrica da un’autorità, come lo Small Wars Journal, certo non tacciabile di simpatie marxiste. In una recente udienza in Vaticano, la Ressa è tornata a denunciare come il deterioramento della dialettica democratica corra oggi soprattutto sul web: le operazioni di estrazione di informazioni personali, schedatura, disinformazione, manipolazione dell’opinione pubblica si servono principalmente dei social media dietro cui si nascondono tech giants motivati da agende a dir poco opache. All’indomani dell’insediamento della seconda amministrazione Trump ciò che gli Stati Uniti hanno scoperto di loro stessi nelle Filippine sembra più rilevante che mai.