Ted Conover e i suoi dimenticati
Un viaggio nell’America degli ultimi dove Trump colpisce al cuore.
I dimenticati (tit. originale Sullivan’s Travels) di Preston Sturges uscì nelle sale d’oltreoceano nel febbraio del 1941, quattro mesi prima che gli Stati Uniti respingessero l’attacco della marina giapponese nella battaglia delle Midway. La Grande Depressione aveva già sconvolto il Paese e lasciato le sue tracce. Fu per questo che il tentativo del regista originario di Chicago di portare sul grande schermo gli sconfitti di una nazione che contemporaneamente mostrava al mondo la sua forza, divenne una pietra miliare nella storia della cinematografia. La trama è semplice, e si inserisce in quel filone di metacinema che conserva da sempre un certo fascino: il regista John Sullivan, stanco di realizzare commedie patinate, decide di dedicarsi a un film dal vago sapore realista e documentaristico, Fratello, dove sei?, in cui raccontare la vita quotidiana dei poveri del Paese. Per farlo sceglie di usare un metodo immersivo, che estremizza le indagini sociologiche che all’epoca cominciavano a farsi strada (basti pensare, ad esempio, ai Middletown Studies dei coniugi Lynd del 1937): John si traveste da senzatetto e inizia a vivere sulla sua pelle cosa significhi essere al di fuori dei canoni. Nel suo viaggio (a tratti comico) incontra un’umanità varia e dolente, disperata, ma imprevedibile, desiderosa di essere conosciuta e riconosciuta.
Cheap Land Colorado. Bellezza e squallore ai margini dell’America di Ted Conover (edizioni Black Coffee, trad.Sara Reggiani) sembra nutrire le stesse ambizioni di John Sullivan, utilizzando, con impercettibile maestria, l’indagine descrittiva e i temi tipici della sociologia urbana.
San Luis Valley è un luogo vasto, che esiste «fuori dal tempo, fuori dal flusso delle notizie, immune ai moderni malesseri»: compreso tra il Colorado e il New Mexico, fa parte di quell’America rurale e incontaminata che seduce e allontana, ignota persino a chi vive negli Stati Uniti. Qui, un lotto di cinque acri di terra si può acquistare a prezzi stracciati (se si tratta anche a meno di 5000 dollari): con un po’ di buona volontà ci si può stabilire sul proprio pezzo di terra con una roulotte, o tirando su qualcosa che somigli a una casa. Per quattro anni (dal 2018 al 2020) Ted Conover, giornalista e vincitore del National Book Critics Circle Award, si stabilisce in questo luogo per vivere insieme alla comunità che lo abita, ossia uomini e donne che hanno perso il lavoro, che affrontano la depressione, reduci di guerra, ex alcolisti; persone che lottano con varie dipendenze, omosessuali, cittadini stanchi del sistema e convinti di poter vivere con poco e lontano dalle regole, «un mondo popolato di esseri autosufficienti, estraniati, fumatori, dolenti, sognatori, un mondo di eremiti». Tra questa umanità varia, Conover commette inizialmente un errore che influirà anche sul nostro modo di vedere le cose: si illude di poter racchiudere in un unico insieme ben definito le persone che incontra. È vero che le storie di Paul, Geneva Duarte, Angelo e la famiglia Gruber, hanno molto in comune: il sospetto e il rifiuto per le norme e l’autorità; l’identificazione quasi totale con la proprietà privata, difesa anche a costo di usare le armi; il desiderio di sfuggire alle regole, di non credere alla narrazione dominante, al governo che perseguita e mente («Molto di quello che i miei vicini dicevano sulla pandemia faceva eco alle parole usate da Fox News»); la generosità, la condivisione e un’idea di comunità che a volte deve scendere a patti con il sospetto e la paranoia; ma anche la coscienza ambientale, l’importanza del riciclo e dell’aiuto reciproco, la convinzione di poter vivere con poco e senza il bisogno di sgomitare per emergere, per lasciare il segno, come nota Conover. Ecco, se c’è davvero un tratto comune forse è proprio questo: la convinzione che per essere felici (o almeno sereni) non sia indispensabile essere visti. Anzi, quanto più si è invisibili al mondo, tanto più si hanno speranze di vivere. I loro valori sono paradossalmente più americani di ciò che credono: non è un caso che molti siano seguaci di Trump e dell’America first. Ma è sbagliato pensare di inquadrarli in un unico stereotipo: è Conover a metterci in guardia dal suo stesso errore: non c’è solo il desiderio di solitudine e di fuga dalla società e dalla legge. «Non hai parlato di una situazione come la mia», lo rimprovera bonariamente Camaro Jim, uno dei tanti vicini incontrati, «Non hai detto che certi sono qui perché hanno provato a sopravvivere in città e non ci sono riusciti». Camaro Jim perse un lavoro da 80.000 dollari l’anno in una grande azienda all’età di 55 anni. Poi una serie di tragici eventi: la morte della madre, del figlio e infine il suicidio della moglie. E poi la ricerca di un luogo in cui continuare, in cui non sentirsi escluso da un modo giusto di vivere, in cui poter essere imperfetti. C’è, infatti, un’autentica sete di libertà tra queste persone che trova pace solo in luoghi così: «A volte mi chiedevo – scrive l’autore – se in loro si trovasse la risposta alla domanda: Per chi è l’America e per chi no?»
C’è una frase molto bella di Jelani Cobb che Ted Conover cita all’'inizio del capitolo finale e che racchiude il senso non solo di questo lavoro, ma del nostro incessante desiderio di comprendere le cose, le persone e persino le loro scelte politiche: «i margini dell’America si sono spesso rivelati i punti di osservazione migliori da cui contemplare la [nostra] debolezza».