Super Bowl: il rito sportivo che quest'anno celebra i millennials
Alessandro Tapparini ci porta dentro il Super Bowl: la finale del campionato NFL
Nel film "Il paradiso può attendere" diretto e interpretato da Warren Beatty nel 1978, si immaginava che i Los Angeles Rams fossero in procinto di disputare il Super Bowl giocando in casa contro i Pittsburg Steelers, e che un loro quarterback di riserva (ma in odore di promozione a titolare) poco prima della fatidica finalissima venisse prematuramente "trasferito" nell'aldilà da uno zelante quanto inesperto angelo custode, erroneamente convinto che il suo protetto stesse per morire investito da un camion. Dopo una serie di rocambolesche peripezie il protagonista finiva per reincarnarsi nel corpo del quarterback titolare, il quale perdeva la vita a causa di un contrasto particolarmente violento durante la partita; e nei suoi panni portava i Rams alla vittoria.
Ce n'è voluto di tempo, nella realtà. Il loro primo Super Bowl i Rams lo avrebbero vinto solo nel 2000; ma non come squadra di Los Angeles bensì di St. Louis, in Missouri, la città che ha ospitato la franchigia nel decennio 1995-2016.
Nella città dei Lakers e dei Dodgers, invece, al football mancava da sempre una squadra di super campioni; fino a domenica scorsa, quando i Rams hanno finalmente trasformato in realtà quella profezia holliwoodiana sino ad ora rimasta irrealizzata, vincendo il titolo proprio lì, nella città di Hollywood per l'appunto, e nel loro nuovissimo SoFi Stadium.
Unica discrepanza: i Rams hanno vinto sconfiggendo di appena 3 punti non gli Steelers come nel film di Warren Beatty, ma i Cincinnati Benglas, decisamente la grande rivelazione di questo campionato (una squadra che non ha mai vinto un solo Super Bowl, che non arrivava in finale da 33 anni, che due anni fa aveva vinto due partite in tutto il campionato e l'anno scorso quattro, e il cui quarterback è appena alla sua seconda stagione in NFL).
Vincere il Super Bowl in casa è un evento rarissimo, che curiosamente non era mai capitato nemmeno una volta fino a due anni fa ed è accaduto per la primissima volta nella storia giusto l'anno scorso, ai Tampa Bay Buccaneers; eppure si è ripetuto quest'anno, ed è ancora più eclatante che ciò sia avvenuto proprio a LA, che non ospitava un Super Bowl da mezzo secolo - pur essendo stata teatro della primissima edizione, nel lontano 1967.
Il Super Bowl, però, non è certo una faccenda locale: al contrario, è un evento nazionale come pochi. Ci sono solo due eventi televisivi che noi italiani possiamo usare come termine di paragone per renderci conto di quando esso sia un rituale al quale è pressoché impossibile sottrarsi per un americano: uno è la finale dei mondiali o degli europei di calcio quando partecipa la nazionale italiana, e l'altro è il festival di Sanremo. Forse più il secondo che la prima, pur non trattandosi di un evento sportivo: non fosse altro che per il fatto che anche il Super Bowl, proprio come Sanremo, è un appuntamento fisso annuale.
Non è sempre stato così: in origine, negli anni Sessanta e Settanta,la televisione non disponeva ancora di mezzi e di tecniche tali darendere spettacolare e avvincente uno degli sport meno telegenici. Per via delle continue lunghe interruzioni, una partita di football è uno spettacolo di per sé indigesto per chi non sia particolarmente appassionato a questo sport. Il football è invece divenuto uno show televisivo amatissimo negli anni Ottanta, che non a caso sono anche l'epoca in cui alla finalissima venne attribuito il nome di Super Bowl, grazie ad alchimie di regia hollywoodiane e a un esercito di oltre 60 telecamere di ogni genere che consentono di trasformare questa finale nel principale spettacolo nazionalpopolare d'oltreoceano.
Ciò che però il rito del “Super Bowl Sunday” (o più semplicemente “Super Sunday”) non ha in comune con quello del nostro Sanremo è la fruizione tipica dello show, che non è quella solitaria o strettamente famigliare bensì quella conviviale con gli amici: si guarda la partita mangiando e bevendo, in un bar affollato o in una casa comunque affollata di amici, quasi una versione invernale del barbecue del Quattro Luglio.
Forse anche per questo l'edizione dell'anno scorso, quando ancora la socialità risentiva molto della pandemia, il Super Bowl era stato visto da meno di 92 milioni di spettatori: un'enormità, ma pur sempre il dato più basso degli ultimi 15 anni. Vero è che gli ascolti strettamente televisivi erano in calo da ben prima: il "picco" era stato nel 2015, quando la finalissima fra i New England Patriots e i Seattle Seahawks era stata vista da più di 114 milioni di spettatori, e da allora si era registrato un costante declino che è solo in parte una migrazione verso lo streaming.
Il Super Bowl di quest'anno è andato decisamente meglio: l'hanno visto in TV 99 milioni di spettatori, quindi 7 milioni più dell'anno scorso, facendone lo show televisivo più visto degli ultimi due anni; ma soprattutto, a questi si aggiungono più di 11 milioni di spettatori in streaming, più del doppio dei 5 dell'anno scorso, un record assoluto.
Avrà contribuito il clima da "ritorno alla normalità"?
E forse avrà contribuito anche un "halftime show" (il concerto dell'intervallo, solitamente uno dei passaggi più visti) più interessante di quelli degli ultimi anni, un revival della musica rap/hip hop di 20 anni fa con tanto di raduno di artisti cinquantenni (Dr. Dre, Mary J. Blige, Snoop Dogg, Eminem) che potrebbero essere i genitori dei trapper di oggi?
Sarà l'inizio di una inversione di tendenza?
Per scoprirlo l'appuntamento è fra un anno a Phoenix, in Arizona.
Alessandro Tapparini