L’invisibilità sanitaria delle minoranze in Colorado: «Costa vite umane»
Un'intervista alla direttrice esecutiva di Out Boulder County, Colorado, sulla discriminazione sanitaria della comunità LGBTQ+.
Grazie per aver accettato quest’intervista. Sei la direttrice esecutiva di Out Boulder County, un'associazione che sostiene i diritti delle persone LGBTQ più persone nella contea di Boulder, Colorado.
Esatto. Mi chiamo Mardi e i miei pronomi sono she/her/hers.
Cosa fa Out Boulder County? Quali sono le sue attività e il suo scopo?
Sai, non posso parlare dell’oggi senza parlare di cosa siamo stati e di come abbiamo iniziato.
In Colorado, nel 1992, c'era una cosa chiamata Emendamento 2 per cui allora i nostri amici, i nostri vicini e le nostre famiglie avevano votato. Si trattava di garantire che le persone LGBT non avessero alcun diritto, alcuna protezione riguardo servizi, alloggi pubblici, ecc. E quel caso è arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti in una causa chiamata Romer v. Evans. Se si guarda la storia di tutti i gruppi LGBTQ+, quelli che sono sopravvissuti, la maggior parte di loro si sono formati tra il 1992 e il 1994. Il Colorado era conosciuto come hate state, e la gente cancellava congressi ed eventi qui, ma Jean Debowski, che vive a Boulder, portò il caso pro bono fino alla Corte Suprema e vincemmo, e quella legge non fu mai promulgata. Da lì è nato questo gruppo dando vita al primo Pride nella città di Boulder.
E nel mio ufficio ancora oggi è appeso il testimone che fu portato alla parata. Ci aggrappiamo al nostro passato, mentre guardiamo verso il futuro. Abbiamo membri del nostro staff che vanno nelle aziende, formiamo molti procuratori distrettuali del Colorado su questioni LGBTQ+. Più di recente abbiamo cominciato a lavorare con il Boulder Shelter. Ci sono un sacco di persone transgender che sono senzatetto nella nostra comunità. E così stiamo lavorando per cambiare sistemi che non sono pensati per accogliere le nostre identità. Mettiamo in campo molte attività di formazione anche nelle scuole attraverso il programma più longevo della nostra contea chiamato Speaking Out, con un gruppo di persone che porta la testimonianza delle proprie storie di coming out. E un programma incredibile che raggiunge migliaia di bambini ogni anno. Le attività sono rivolte soprattutto ai cosiddetti “alleati” perché, francamente, al mondo ci sono molte più persone etero e cisgender che non.
Una delle cose che già sapevamo prima della pandemia era che le persone LGBTQ+ soffrivano di più alti tassi di depressione, ansia, suicidio. Questo lo sapevamo grazie ai nostri studi, fatti da enti come il Williams Institute o il Movement Advancement Project, perché naturalmente il governo non ti dirà nulla di tutto ciò perché non tiene traccia delle identità LGBTQ+ nei dati nazionali. Ci sono alcune eccezioni, ma sono piuttosto scarse. Durante la pandemia due persone trans che avevano scarsi legami con l'organizzazione sono morte di suicidio. E il suicidio è un indicatore purtroppo tardo di cattiva salute mentale. In quel momento ho chiamato uno dei nostri commissari locali di contea e gli ho detto «dovete darci risorse perché la nostra gente sta morendo». Dovevamo mettere su programmi specifici perché i sistemi che già ci sono non ci aiutano.
E lo vediamo da casi di persone che vanno ai centri di salute mentale locali, e dicono «non era proprio per me». Ad esempio, un gay messicano, ora con cittadinanza americana, stava facendo le pratiche per la cittadinanza durante la presidenza di Donald Trump. Era stressato come puoi ben immaginare. Va da un terapista e racconta la sua storia di paura e ansia. E il terapista gli fa «non c'è niente di cui preoccuparsi». Ora, questo tipo di risposta, non capendo le intersezioni di identità gay, identità immigrata, unite ad una scarsa salute mentale, tiene le persone malate e porta a risultati davvero miseri.
Sono stata direttrice esecutiva per poco più di otto anni. E una delle cose accadute più terribili da quando lo sono è stata la strage di Orlando. Quel giorno, dopo quella tragedia, abbiamo tenuto una veglia con persone di fede e membri della comunità.
Ed è allora che abbiamo iniziato a lavorare con le forze dell'ordine anche perché sappiamo che la comunità LGBTQ+ ha sospetti che sono ben fondati. Durante la presidenza di Donald Trump crimini e incidenti di odio nella contea di Boulder hanno raggiunto un picco, anche prima dell'inaugurazione. Abbiamo iniziato a ricevere rapporti in tal senso e per tutto il tempo che io sono stata qui persone si mettevano continuamente in contatto con noi riguardo crimini di odio, in cerca di assistenza con la polizia. Abbiamo avuto un incidente non molto tempo fa all'interno della nostra contea, dove una persona genderqueer con apparenza maschile aveva segnalato un’aggressione. E gli agenti di polizia gli fanno «perché non l'hai semplicemente spinto via»? Non va bene.
Sappiamo quanto lavoro dobbiamo fare soprattutto riguardo la formazione per la comunità al fine di far sentire le persone sicure quando segnalano incidenti come violenza sessuale o crimini d'odio. Personalmente cerco di fare da tramite e di scrivere rapporti e assicurarmi che i crimini siano indagati bene.
E poi c’è il Covid…
E poi arriva il Covid. Ora, abbiamo fatto dei sondaggi all’inizio, perché già sapevamo che siamo economicamente più svantaggiati, che moltissimi di noi vivono in povertà. Ed è quello che i numeri hanno dimostrato.
Nel 2013 nella contea di Boulder c'è stata un'inondazione storica. Troupe locali e nazionali erano qui con gli elicotteri. È stata una cosa terribile. E una delle cose che due donne Carmen Ramirez e Marta Lamine, attualmente commissaria di contea, hanno notato e su cui hanno fatto uno studio chiamato Resiliency for All è che le persone che non si sono riprese bene dall'alluvione o hanno sofferto di più erano all’interno di comunità di colore. Potrei sbagliarmi, ma non credo che ci fosse un riferimento alla comunità LGBTQ+ in quello studio. Ma a causa di questo, e grazie a quello studio, i nostri sistemi statali hanno iniziato a mandare quelli che loro chiamano mediatori culturali.
Così, quando la pandemia ha colpito, la contea di Boulder ha messo insieme un gruppo di persone LGBT, di colore e disabili. E ogni mese parlavano di una questione diversa, assistenza all'infanzia, salute mentale, impatti finanziari, e infine dei vaccini. E grazie a questo Caitlin Gray, che è una ricercatrice della nostra comunità, lesbica dichiarata, ha chiesto al Direttore della Health Equity nella Contea di Boulder «sarebbe utile avere informazioni su comunità LGBTQ e l’esitazione nei confronti dei vaccini?» E la risposta è stata «sarebbe un dono grato». Però mancavano informazioni chiave. Hanno fatto test con uomini sieropositivi? Qualcuno in PrEP? Persone transgender sotto cura ormonale? E per quanto riguarda la gravidanza? Non c'era alcuna informazione proveniente dal governo federale su nessuno di questi gruppi. Perché? Perché non siamo stati inclusi in nessuno dei loro studi clinici.
Abbiamo quindi iniziato ad affrontare tutte le barriere che il nostro sistema sanitario locale mette in atto, non perché lo facciano di proposito, ma perché così è e nessuno ci pensa. Partendo dalla lingua. Tutti i materiali erano in inglese, nessuno aveva nemmeno pensato di presentarsi in un hub vaccinale insieme a qualcuno che parla spagnolo. Abbiamo lavorato per questo e costruito una fantastica relazione con un gruppo latino locale chiamato El Centro Amistad. Poi abbiamo aggiunto Craig dal Centro per le persone con disabilità. Infatti, ho parlato a un panel del CDC la scorsa settimana, e stanno ora pensando di modernizzare in tal senso i dati, e cominciare a ripensare la salute pubblica, e credo che ci sia voluta la pandemia perchè questo avvenisse.
Due settimane fa, qualcuno della contea ci ha contattato e ci ha detto: «avete dati sulla scarsità alimentare nella comunità LGBTQ+?» In realtà dovrei chiederlo io a loro. E così eccoci qui, questa piccola squadra di 12 persone, che raccoglie dati senza finanziamenti in modo da poter capire come abbattere barriere, per portare alla nostra gente cibo. Perchè il sistema è rotto.
Riguardo la raccolta di dati. Recentemente avete pubblicato forse il primo sondaggio sull’attitudine vero il vaccino all’interno delle comunità di colore e LGBTQ+. Quali sono stati i risultati?
Ti riferisci alla nostra indagine sui giovani. Nel complesso le persone giovani trans, gay e lesbiche, bisessuali e di colore sono meno esitanti e più vaccinate sia degli adulti delle loro comunità che degli adulti in generale. Quello che abbiamo scoperto nel nostro studio è che le persone giovani bianche, povere e cisgender sono quelle con più esitazione e meno probabilità di essere vaccinate, anche a causa della pressione dei genitori. Quindi quello che penso, e naturalmente va preso con le pinze, è che il nostro lavoro educativo attorno ai vaccini abbia avuto successo. Perché abbiamo visto un aumento delle vaccinazioni nella comunità. Abbiamo un hub vaccinale itinerante con un autobus fornito dalla contea, ieri abbiamo vaccinato 48 persone. E continueremo, penso che avremo altri tre hub in primavera, continueremo a vaccinare.
Di solito quando leggi «oh, c'è una connessione tra etnia e no-vax», la mente pensa subito alle persone di colore. Quando diciamo che l’etnia fa da barriera alle vaccinazioni invece parliamo delle persone bianche. E questo perché a mio parere Donald Trump ha politicizzato la sanità pubblica, e continua a farlo. Parliamo di persone che non verranno mai vaccinate. Qualcuno che conoscevo è morto questa settimana di COVID, viveva nella mia città natale, so quali fossero le sue idee politiche. Non si è voluto vaccinare e ha lasciato dei bambini. Un brav’uomo è rimasto incastrato nella trappola della disinformazione e della politicizzazione del vaccino, che invece è efficace e a volte salva la vita. È straziante. Siamo a questo punto negli Stati Uniti e non penso che siamo gli unici.
Mi dispiace molto. Abbiamo anche noi racconti di diffidenza ideologica verso la vaccinazione, stimolata dalla propaganda politica. Parlando sempre di sfiducia. Storicamente non c’è mai stato un buon rapporto tra la comunità e le istituzioni mediche negli Stati Uniti. Qualcosa, naturalmente, legato alla storia della comunità e che ne influenza quindi soprattutto la parte adulta. Anche perché quando si parla di pandemie la mente torna all’AIDS. Vedi in atto lo stesso fenomeno? Noti quella stessa diffidenza nei dati?
C'è sicuramente diffidenza e hai ragione, è iniziato con l'AIDS. Era il 1982 quando ho fatto coming out, ed eravamo all'inizio della pandemia. Non lo chiamavano nemmeno AIDS allora, ma GRID (Gay-Related Immune Deficiency, n.d.r.). C'è ancora quella sfiducia. Quando vado dal medico, per un Pap test o qualcosa del genere, ho ancora questi vecchi nastri che scorrono nella mia testa «ora lo scopre, sono lesbica, cambierà atteggiamento». Questo genera più diffidenza. E stiamo parlando di me che ho i soldi per andare dal medico, ho copertura assicurativa, figuriamoci altre persone senza. Quando vivi in un mondo che non ti accetta, esso, di regola, invade ogni parte di te. Non c'è nulla di intrinsecamente sbagliato in noi. Ma dopo che sei stato maltrattato un milione di volte o qualcuno ti ha urlato contro, o ti ha mandato un fax - sì, continuano a mandare fax – in cui ti dicono «brucerai all'inferno»… Cioè, lo so che non è vero. Ma dopo una vita di chiese che lo dicono, di governi che non ti vedono, ovviamente questo influenza anche le istituzioni e industrie mediche. Ci sono stati alcuni cambiamenti, ma non abbastanza.
Parli della raccolta di dati come chiave per la visibilità della comunità negli Stati Uniti, ma qual è l'atteggiamento dei membri della comunità nei confronti di istituzioni che raccolgono dati sensibili come l'orientamento sessuale e l'identità di genere?
Oh, ci sono resistenze, te lo assicuro, hai centrato la questione. Ed è per questo che dico che debba essere facoltativo. Penso che ci sia probabilmente molta paura tornata durante l'amministrazione Trump. Insomma, non vorresti che un governo del genere avesse informazioni su di te. E penso che sia qualcosa di simile a quando la marijuana è stata legalizzata, ci si doveva iscrivere e la gente non voleva mettere il proprio nome su quella lista, per buone ragioni. Penso che si normalizzerà dopo un po', ma la mia gente a volte ce l'ha con me anche solo per averlo suggerito. Chiesi a uno dei vicepresidenti della Robert Wood Johnson Foundation quando scoppiò la pandemia di AIDS «puoi dirmi perché il governo federale non ha iniziato a raccogliere dati sull'orientamento sessuale delle vittime?». E sai, non esistevano dati del genere allora , anche se c’erano utili ragioni sanitarie per avere queste informazioni. Non si possono affrontare problemi senza dati. Avere dati non farà altro che rafforzare l’attivismo di gruppi LGBTQ+ come Out Boulder in tutto il paese. Perché non tutti hanno un team di ricerca come l’abbiamo noi dopo tanto lavoro e fatica. C'è un'organizzazione chiamata One Colorado, ma non hanno fatto una valutazione delle disuguaglianze sanitarie della nostra comunità credo dal 2018. Questo è naturalmente solo parte del nostro lavoro, ma penso che avere i dati influenzerà il sistema in modo tale da offrire programmi di welfare che servano meglio la nostra comunità.
Pensando alla paura che molte persone provano nel dare informazioni sulla loro identità al governo. Può essere che ora il governo stia cercando di aiutarti ma, in futuro, potrebbe usare quegli stessi dati per altro.
Proprio così. Ci deve naturalmente essere cura e sicurezza nel gestire questi dati. Per esempio, durante il censimento dicono che le informazioni non saranno mai condivise. Certo che lo saranno. A un certo punto, passati decenni, quell'informazione diventa pubblica. E così vogliamo che sia chiaro come questi dati saranno gestiti. Devi avere tutele, io sono una di quelle a cui piace riempire moduli perché è importante, ma lo faccio e penso «ci saranno conseguenze?» Certo, non sono un idiota. Sono in giro da abbastanza tempo da sapere che i sistemi sono quello che sono. Ma se non ci vedono nei dati il sistema non cambierà mai.
A proposito del Colorado. Politicamente è come un'isola, famosa per essere uno degli stati più LGBTQ+ firendly del Mountain West. È perché è da tempo fortemente Dem? O ci sono più motivi?
Sei arrivato preparato. Sono nata in Colorado, ho vissuto qui la maggior parte della mia vita, ma sono stata anche a New York City, Houston e Seattle per 20 anni. La mia famiglia era fatta di minatori e allevatori, è così che sono finiti qui. E sono libertari, anche se li chiamano indipendenti nei sondaggi. «Lasciatemi in pace. Voglio la mia pistola. Voglio il mio cane, la mia donna a casa. Governo stai fuori, non mi vaccinare!». Ma poi abbiamo avuto Pat Schroeder, una delle prime donne al Congresso negli anni '70. È ancora viva. E poi tanta altra gente che ha anticipato i tempi e ha fatto sì che il Colorado pensasse diversamente, tipo «wow, non ci sono donne al tavolo? Wow». Ma Pat Schroeder c’era.
Abbiamo anche una grande industria sportiva invernale. Questo porta persone provenienti dalle coste che a volte rimangono e portano idee insieme a loro. Succede qualcosa del genere nella mia comunità nativa. Vivo a Longmont, che è una città nella contea di Boulder, che prende il nome da Boulder, una città universitaria. I miei genitori vivono a Longmont. Dicono «non portare Boulder a Longmont», che significa «non portare qui le tue idee selvagge», idee folli come trattare le persone gentilmente. È questa mentalità cowboy che si scontra con una più liberal. Io sono moderatamente liberal. Ero radicale, avevo un papillon e andavo in giro a dare fuoco a tutto. E poi sono invecchiata e ho capito che i cambiamenti erano graduali. E non sono l’unica.
Nel 1992, quando i nostri vicini dicevano «non otterrete mai i diritti», questo ha galvanizzato la comunità e ci hanno resi più forti. L'abbiamo già visto succedere e non succederà più. Per la celebrazione del Pride a Boulder le persone vengono dal New Mexico, dal Wyoming, vengono dal South Dakota. E quindi siamo un po' un hub. Ma non è tutto rose e fiori qui. Dicono che siamo una delle contee con qualità della vita più alte, ma chi stanno veramente descrivendo -e si torna ai dati-? Perché ci sono tantissime persone che entrano nel nostro ufficio in cerca di aiuto.
Parli della tua vita nel Colorado rurale e del tuo passato radicale. Qual è stata la tua esperienza, quella politica e da attivista?
Come ho detto, ho fatto coming out durante l'AIDS. Ed è stato spaventoso. E poi è diventato triste. Ci ha spazzati via, ho pochissimi amici maschi della mia età. E quelli che ho, sono per lo più persone che hanno fatto coming out dopo l'AIDS, erano sposati. E poi ci fu Urvashi Vaid, in piedi in una conferenza stampa con quel cartello.
Quell'attivismo ha cambiato il modo in cui il governo federale ci guardava. Penso che questo mi abbia radicalizzato, che sia così che si devono cambiare i sistemi, non si può essere sempre gentili e aspettare cambiamenti graduali tutto il tempo. A volte devi essere la persona che dice qualcosa che non piace a nessuno. Questo fa andare avanti un’intera comunità. Per questo ho un grande poster di Harvey Milk appeso in casa mia.
Ero una bambina in una cittadina di 3000 persone. Mio padre era un veterinario, era una vera zona rurale, sai, facevo nascere vitelli e vaccinavo mucche da bambina. Andavamo alla chiesa metodista, quindi non sentivo altro che brutte cose sugli omosessuali.
Sono sempre stata un maschiaccio, mio fratello dentro a leggere e io sulle moto. Mia madre è ancora delusa. Sai, non indosserò quel vestito, non porterò quella borsa. E poi pensavo cose tipo «oh, mio Dio, sono una pervertita», perché quello era il linguaggio con cui ero cresciuta. E poi sono andata all'Università di Denver. Ho incontrato due lesbiche e, come se si fosse accesa una lampadina, mi sono detta «oh, mio Dio, non sono un mostro, Ci sono persone come me, wow». Ho fatto comig out quando avevo 18 o 19 anni. Non alla mia famiglia, per carità, è per questo che mi ero trasferita poi a Houston. «Non posso dirlo a queste persone, ho bisogno di andare avanti con la mia vita». E ci ho messo un po', sai, ho pensato ad Harvey Milk «Come out, come out, wherever you are» quando ero a New York City.
E poi il giorno in cui Edith Windsor sconfisse gli Stati Uniti d'America fu uno dei più grandi giorni della mia vita. E ho pensato: «Una persona così può fare una grande differenza». È quello che ho sempre sostenuto, una persona può fare la differenza. E non è facile. Sai, Edith soffriva di grandi problemi di salute, soprattutto stress comprensibilmente. Ma ha superato tutto e ce l’ha fatta, mentre Harvey Milk fu invece ucciso.
Sono stata Grand Marshal della Pride Parade a Denver. Ed è stato durante l'amministrazione Trump e l'odio era, e ancora lo è, in aumento. I numeri delle aggressioni salivano, e le minacce anche. Avevo paura, ero davvero spaventata. Tuttavia, c’è una delle famose citazioni di Harvey Milk che ho ancora nel portafoglio, «if a bullet should enter my brain, let it break down every closet door». Ed è così che vivo io, devi continuare a fare quello che pensi sia la cosa giusta, chiedi aiuto a Dio, trova persone che la pensano allo stesso modo e vai avanti.