Estrema o di centro, figlia di Mussolini o di Trump: come chiamiamo la nuova destra
La stampa estera sembra essere d’accordo sulla natura estremista della destra italiana. Da noi è diverso.
Dare un nome alle cose è importante. Nominarle le fa esistere, assegna loro un posto nel mondo, le categorizza, le denota, consente di parlarne. Quando c’è tanta confusione sul nome, è perché si sta osservando una cosa nuova, o una che ha cambiato forma. Anche se è già entrata nella riflessione pubblica e diventata oggetto di confronto, i parlanti stanno ancora cercando di comprenderla, e ognuno fa il tentativo di darle un volto.
In estate – la crisi del governo Draghi era già iniziata – il New York Times ha titolato: “Il futuro è l’Italia, ed è nero”. Allora si intravedeva appena il preludio di un esecutivo che avrebbe avuto la firma di Giorgia Meloni. La stampa estera l’ha vista impossessarsi delle cime dei sondaggi, incidere sull’agenda, invertire i rapporti di forza all’interno della coalizione di destra.
«Estrema destra». «Destra dura». «Post-fascista». Sono queste le parole usate dai giornali americani ed europei. Invece di esserne spaventata, la stampa italiana ha assistito alla rapidissima campagna estiva con lo stesso interesse che avrebbe potuto prestare allo svolgersi di una lettura. Infatti, nei confronti della coalizione vincente, si è sempre riferita con la parola «centrodestra». Quell’appellativo, figlio della tradizione più moderata del partito di Berlusconi, si è mantenuto così ed è diventato il nome ufficiale. Tuttavia, c’è una grossa differenza tra destra estrema e di centro: non si tratta di sinonimi. Cosa significa indicare la stessa cosa e chiamarla da una parte «moderata» e dall’altra «fascista»?
L'articolo del New York Times dello scorso 22 luglio ha gettato le basi per una riflessione sulla «caduta delle barriere tra il centrodestra tradizionale e l'estrema destra ribelle che si sta diffondendo in tutta l'Europa occidentale e in America». Un fenomeno che, come suggerisce il titolo, è più grande di Meloni e dell’Italia. Ha a che fare con tutto l’Occidente, è «parte di un trend», ammetterà il NYT in un pezzo del 6 ottobre.
A due giorni dalle elezioni italiane, il Washington Post converrà che «il successo di Meloni segna un momento significativo per tutte le democrazie liberali occidentali. Se c'è una storia dominante nella politica occidentale negli ultimi dieci anni, è che l'estrema destra non è più qualcosa di inammissibile. Ha preso il controllo della corrente principale di destra in molti Paesi, inclusi, probabilmente e in modo più significativo, gli Stati Uniti».
La stessa testata dirà che l’estrema destra è diventata mainstream, si è «normalizzata», e se lo ha fatto, se ha conquistato i palazzi romani pur portandosi dietro la «rabbia post-fascista», e si è guadagnata il rispetto e la credibilità delle istituzioni, è perché le forze moderate le hanno dato il permesso. L’hanno «tollerata», scrive il Washington Post, hanno chiuso un occhio, le hanno concesso di fare finta di essere normale.
Questo sta a suggerire che la stampa americana vicina al Partito Democratico vede la vittoria di Fratelli d’Italia come un’anomalia, laddove «normale» significa «democrazia liberale», ed «estrema destra» «oltre ogni limite». È evidente nelle prime pagine dei quotidiani che hanno seguito le elezioni parlamentari del 25 settembre. “Vittoria per l’estrema destra. Il trionfo dei nazionalisti” è la scelta del New York Times. In foto, Meloni, in giacca di pelle nera, sorride al seggio elettorale. La scelta dei colori suggerisce una lettura che rimanda all’era fascista.
Allo stesso modo, il Washington Post sceglie una foto di Meloni che lancia un bacio, su sfondo nero; e aggiunge: «Una chiara vittoria per la coalizione che include ben due forze di estrema destra». Diversa è invece la reazione del Wall Street Journal, vicino al Partito Repubblicano, che opta per un generico “La destra italiana di Giorgia Meloni vince le elezioni”. Anzi, scrive: «Gli elettori italiani si sono spostati verso partiti con chiare posizioni filo-occidentali, mentre i partiti più mansueti nei riguardi della Russia hanno ottenuto risultati scarsi rispetto alle precedenti elezioni nazionali del 2018». Il riferimento qui è al Movimento Cinque Stelle.
La reazione dei principali quotidiani americani vicini al Partito Democratico somiglia molto alla reazione di alcuni giornali europei. In Francia, Le Monde titola “Vittoria storica per l’Italia e l’estrema destra” e, più in là, il 21 ottobre, scrive un articolo dal titolo “Giorgia Meloni, leader di estrema destra, presenta un governo volto a rassicurare i partner di Roma”: si ha bisogno di essere rassicurati solo quando si avverte un rischio – in questo caso, il rischio democratico.
Tuttavia, i toni più drammatici arrivano dalla Spagna: “L’estrema destra di Meloni vince in Italia e spaventa l’Unione Europea” (El Mundo), “Giorgia Meloni: dall’elogio a Mussolini alla vittoria in Italia”, (El País). Quest’ultimo, in un secondo articolo – “Un’altra marcia su Roma?” – scrive: «L'Italia torna al passato. Ad una memoria storica che, come in Spagna, non è sanata. Un secolo dopo, Roma si prepara a vivere una nuova marcia. Giorgia Meloni sarà Presidente del Consiglio, anche se Sergio Mattarella è tentato di fare ciò che Vittorio Emanuele III non fece nell'ottobre del 1922: impedire a Mussolini di essere capo del governo».
Il timore di una svolta estremista è comprensibile in Europa, in particolar modo in Spagna che, come scrive El País, fa ancora fatica a fare i conti con il proprio passato. Lo stesso pericolo è avvertito al di là dell’Oceano. Lo spettro del fascismo si agita anche sulla stampa americana. Il volto e il nome di Mussolini si confondono con quelli di Meloni. «Non è la prima volta», dice il New York Times (sempre in “The Future is Italy, and it’s Bleak”), «che l'Italia ha effettivamente aperto la strada [agli estremismi].
Fu, ovviamente, il primo Paese a essere conquistato dai fascisti, cadendo in mano a Mussolini 100 anni fa». Suggerisce che la vittoria di Fratelli d’Italia rappresenta una «seconda volta», una storia che si ripete, il fascismo che torna. «L’Italia avrà il primo governo di estrema destra dopo Mussolini», titola il Washington Post, all’indomani delle elezioni del 25 settembre.
Perché gli Stati Uniti sono così terrorizzati dal fascismo, se in America il fascismo non è mai arrivato? Forse il titolo del New York Times non è esatto. Il futuro della nuova destra occidentale ci è già stato mostrato nel passato recente e ci è stato mostrato in America. Lo ha fatto Donald Trump. La ragione per cui la stampa americana è spaventata da Meloni è perché trova che somigli al suo ex Presidente. Si legge, infatti, nel New York Times: «Diversi repubblicani si sono congratulati con Meloni – un promemoria della crescente parentela tra i nazionalisti europei e l'ala Trump del Partito Repubblicano, che condividono una filosofia generale di valori sociali tradizionali, sostegno all'immigrazione limitata e profondo scetticismo verso le istituzioni».
Il quotidiano conviene però che nonostante la sua passata ammirazione per Trump, Meloni abbia una storia diversa: mentre Trump era il rampollo di un magnate immobiliare, Meloni è cresciuta nel quartiere di sinistra della Garbatella e, da lì, ha iniziato subito a fare politica. Anche l'agenda di Meloni sembra diversa da quella di Trump, visto che propone politiche economiche per aiutare la classe operaia.
Inoltre, Alexander Stille, Professore alla Columbia Journalism School e autore di libri sulla storia e la politica italiana, ha detto sul New Yorker che la campagna della leader di Fratelli d’Italia non è stata così radicale «se la si osserva come un americano». «La destra americana sembra molto più aggressiva, violenta e antidemocratica di queste persone. Penso che le manifestazioni di Trump creino una sensazione molto più sinistra rispetto alle manifestazioni che ho visto in questa campagna elettorale. C'è molta più retorica violenta, minacce di violenza e così via [in America] che nel contesto italiano».
A essere più convinto del legame tra Meloni e l’ex Presidente degli Stati Uniti è il quotidiano britannico The Guardian. «Coloro che pensano che Fratelli d’Italia sia un partito fascista non hanno capito niente. Il partito di Meloni non è tanto l'erede del movimento fascista di Benito Mussolini quanto il primo imitatore europeo del partito repubblicano statunitense» si legge nell’articolo del 28 settembre intitolato “Italy’s Giorgia Meloni is no Mussolini – but she may be a Trump”.
Il giornale inglese ipotizza la degenerazione dello spazio una volta occupato da Jacques Chirac, Margaret Thatcher o Angela Merkel. «Tale degenerazione è stata guidata negli Stati Uniti dal Partito Repubblicano, a causa della sua collusione con Donald Trump. Una metà dello spettro politico tradizionale negli Stati Uniti si è incrinata, portando con sé la salute della democrazia americana. Quello stesso processo – piuttosto che l'emergere clamoroso di un governo fascista in Italia – potrebbe essere ciò che sta prendendo piede in Europa».
Comunque la si veda, figlia di Mussolini o erede di Trump, la stampa estera sembra essere d’accordo sulla natura estremista della destra italiana. Da noi è diverso. La vittoria di Fratelli d’Italia, seppure il «rischio democratico» abbia tenuto banco durante tutta la campagna elettorale, è arrivata sulle prime pagine senza agitare troppo nessuno. «Ha vinto Giorgia Meloni» (Corriere della Sera), «Meloni si prende l’Italia» (La Repubblica), «L’Italia va a destra» (La Stampa), «L’Italia s’è destra. Rivoluzione alle urne. Trionfa il centrodestra» (Il Giornale). C’è, sì, chi gioisce – «Liberi!!! Vince il centrodestra» (Libero) – e chi è d’accordo con le accuse – «A noi» (Il Manifesto, che aggiunge una foto di Meloni intenta a fare il saluto fascista), ma quella parola resta sempre lì, a ricordarci che parliamo di qualcosa di diverso: centrodestra.
Il Corriere prova a spiegare, in un articolo del 26 settembre, questo disallineamento semantico. «Ci sono delle parole, dei nomi, usati nei titoli di diversi giornali del mondo che da qui, dall’Italia, facciamo più fatica a pronunciare e che risuonano come la nostra paura più grande».