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Il clima è un’emergenza. Quale giornalismo lo sa e quale no
Se nella società anglosassone è una cosa seria, in Italia manca la consapevolezza sul climate change. Il caso degli attivisti di Ultima Generazione lo ha dimostrato.
Ai margini, di solito. Nei bordi, dove si vede meno. In ultima pagina, come le previsioni meteo o l’oroscopo. La stampa non tratta l’emergenza climatica come un’emergenza vera. Almeno non ovunque, e non da sempre. I dati riportati dal MeCCO, l’osservatorio sul cambiamento climatico del centro di ricerca scientifica e tecnologica dell’università del Colorado dicono che la copertura mediatica sull’argomento nei cinque maggiori giornali americani – New York Times, Washington Post, Los Angeles Times, Wall Street Journal, USA Today – in questo ordine, sta crescendo. Ciò da solo non diminuisce il rischio di disinformazione, ma di sicuro è positivo che i media, gli unici strumenti che possono forzare il cambiamento nel Paese, diano all’emergenza climatica una copertura proporzionata.
Il caso di Ultima Generazione
La stampa italiana, ad esempio, sente l’urgenza di scrivere di crisi climatica solo quando arriva alle sue conseguenze più disastrose. Oppure quando, come in questi giorni, l’atto di sporcare la facciata di Palazzo Madama provoca più sdegno, denuncia e richiesta di mano dura che l’evento a monte, il disinteresse del mondo politico rispetto al problema, fenomeno che non ha mai scatenato alcuna reazione.
Si sta parlando tanto dei cinque attivisti di Ultima Generazione che hanno imbrattato la facciata del Senato a Roma perché la vernice è colata su un luogo simbolo delle istituzioni. Ciò ha creato uno smacco clamoroso, portando persino la Rai a decidere di censurare le immagini del blitz. Sul motivo della protesta pochi commenti. «Ho scelto e continuerò a scegliere di compiere azioni di disobbedienza civile non violenta perché sono disperata – ha detto una degli attivisti, Laura, 26 anni, in un messaggio di rivendicazione inviato ai media – ovunque guardi vedo dissociazione, negazione, alienazione rispetto alla crisi climatica». Non sbaglia. Gli ultimi risultati del monitoraggio periodico di Green Peace sulla copertura della crisi climatica in Italia, avviato con l’Osservatorio di Pavia lo scorso gennaio, confermano che la crisi climatica continua a trovare poco spazio nei media italiani, e viene raccontata nascondendo cause e responsabili.
La crisi climatica oltreoceano
È importante dire che anche dove ora funziona meglio, il discorso sul cambiamento climatico ha atteso decadi e subito tirate di orecchie, sofferto leadership politiche negazioniste e pubblici reticenti. Il giornalismo americano nel 2019 è stato accusato dal Guardian di essere «so bad at covering climate change», cioè pessimo a trattare il cambiamento climatico. Erano gli anni di Trump, era già prevista una diminuzione della copertura mediatica sul cambiamento climatico durante il suo mandato come Presidente. Ancora prima, un'analisi dei contenuti dei giornali di prestigio degli Stati Uniti, svolta da Maxwell Boycoff nel 2004 per l’università del Colorado, ha rivelato che, nonostante il consenso scientifico sul fatto che le azioni umane stiano causando il cambiamento climatico, la maggior parte della copertura della stampa ha offerto una controparte di punti di vista opposti, in realtà creando un “falso equilibrio” con l’intento di influenzare la percezione pubblica sulla questione.
Anche oggi, l’aumento della copertura sull’argomento non salva dal rischio di imbattersi in notizie false e manipolate, accostamenti suggestionanti, insinuazioni a detrimento della reputazione della comunità scientifica, degli attivisti o delle istituzioni. «Il giorno del giudizio climatico è vicino, di nuovo», ironizza il Wall Street Journal, «e l'ONU dice che è colpa tua che mangi carne, tra gli altri peccati». In un articolo dal sito di WBUR, stazione radio di proprietà della Boston University, si fa presente che «i Repubblicani sono un po' meno propensi a credere che le attività umane causino il cambiamento climatico oggi rispetto al 2008, mentre la percentuale di Democratici che accetta la responsabilità umana è aumentata notevolmente nello stesso periodo” e che dunque “questa divisione di partito mette in discussione la capacità della copertura mediatica di influenzare le opinioni sul cambiamento climatico”. Molto insomma dipende da cosa si legge, e spesso di legge quello che rinforza le idee che avevamo già.
Abbiamo appena visto che il Wall Street Journal, pur non negando la crisi climatica in corso, trova quasi divertente l’«isteria» che ne consegue. Quella alla base dell’atto di disperazione di Laura. Un’isterica. In un articolo di inizio anno, il quotidiano Repubblicano mette i tentativi della politica di fare fronte alla “crisi climatica” – sì, tra virgolette – attraverso la riduzione delle emissioni di CO2 tra le esagerazioni dell’anno scorso. «L'esagerazione è il bias universale dei media. L'isteria vende. Non c'è da stupirsi che il 2022 sia stato un altro anno impegnativo per l'iperbole». Altrove precisa, insinuando un dubbio, che «alcuni eventi meteorologici sono aggravati dall'aumento delle temperature atmosferiche e oceaniche e dall'innalzamento del livello del mare, secondo il Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. Ma non è stato in grado di attribuire eventi meteorologici specifici al cambiamento climatico».
La reticenza dei quotidiani
Ciò non si avvicina comunque al linguaggio del Giornale, sul nostro versante, seppur ne condivida alcune parole: ritorna l’«isteria», stavolta del «climaticamente corretto». Il quotidiano di Augusto Minzolini ha spesso attaccato l’attivista per il clima Greta Thunberg e le sue «eco-balle», la sua «narrazione catastrofista». Il Giornale, anche nel dicembre primaverile che ci siamo appena scrollati di dosso, non menziona mai il riscaldamento climatico, ma parla di semplici fluttuazioni delle temperature che mettono l’«inverno in stand by», e almeno creano «bel tempo e clima mite».
D’altronde, anche cercando le parole chiave “clima”, “ambiente”, “cambiamento climatico” sulla barra di ricerca dei siti web del Corriere della Sera o di Repubblica, gli articoli più recenti, nonostante il cono di luce che avrebbero dovuto proiettare gli attivisti di Ultima Generazione, sono pieni di parole che rimandano ad una sfera di fenomeni incontrollabili. Il «caldo anomalo», il «clima impazzito», come a dire: la politica, noi, non possiamo farci niente.
È altra cosa la sezione dedicata del New York Times, Climate and Environment: frequenti articoli sulle variazioni delle temperature, alimentazione, plastica, riciclo, dati, pezzi in cui si guarda al futuro con un filo, un filo in più di speranza, come quello in cui il quotidiano traccia le linee guida su come parlare del cambiamento climatico con i bambini, perché «the future could be bad, or it could be better. You can help decide». Oppure ancora, l’approfondimento con tredici storie sul clima, con analisi demografiche, tra cui quella su cosa pensano gli americani del cambiamento climatico, o analisi politiche, come “Le 23 regole ambientali annullate nei primi cento giorni di Trump”.
Approfondimenti interessanti anche sul Washington Post. Qui non solo dati e ricerche, ma anche riflessioni che hanno a che fare con l’istruzione, con le nostre scelte di vita, quelle che toccano le nostre sfere più intime, di noi che dobbiamo convivere in un pianeta che si consuma: uno studio riporta che i libri di testo dei corsi di laurea in biologia dedicano meno spazio al cambiamento climatico oggi rispetto al 2010, e dovremmo o no fare figli nel bel mezzo di una crisi climatica?
Questo tipo di copertura è una successione approfondita e completa di pezzi, ciascuno dei quali contiene un fatto o un dato. È invece difetto diffuso, nel nostro giornalismo, di dare per scontato che il lettore conosca i fatti, e i dati, e di offrirgli la nostra opinione – oltraggiata – su di essi. Su personaggi romanzati come i tre attivisti di Ultima Generazione, che volevano che l'establishment italiano, politica, media, cultura, tutti, parlassero di cambiamento climatico, e sui giornali di tutto si sta parlando, fuorché delle idee sotto la vernice.