Barbenheimer: l'occasione per i giornali di farsi ispirare dal cinema
Il fenomeno Barbenheimer ha permesso alla stampa statunitense di proporre ai lettori spunti interessanti sui due film che al contrario non si trovano negli articoli dei giornali italiani
Foto: Wikipedia Commons
L’estate l’hanno dominata il padre della bomba atomica e una bambola che è tutto. L’uscita simultanea, il picco al botteghino, i meme. Agosto è stato solo nero e rosa. Oppenheimer di Christopher Nolan e Barbie di Greta Gerwig hanno riacceso il dibattito sul cinema. O il Cinema, con la lettera grande, perché è importante, scrive Francis Ford Coppola, quello che riempie le grandi sale senza avere un numero accanto al titolo, quello fatto da pezzi unici su cui il dibattito si anima, la gente discute e i giornali scrivono.
Il connubio tra cinema e giornalismo si inserisce in una delicata opera di critica e insieme divulgazione culturale che permette a chi legge e chi scrive di conversare sull’arte. In questo mese ribollente in cui non passa giorno che non si commenti sul fenomeno Barbenheimer o Barbieheimer, l’attenzione dei media sui due più recenti blockbuster ci sta dicendo che il cinema vuole ancora parlare, e parlare di tutto finché non domina ciascun luogo di discussione pubblica, ogni argomento, e si fa scusa e pretesto per ragionare insieme sui difetti della società, l’occasione per lasciare allo stimolo cinematografico modo di ispirare un dibattito sulla vita vera.
La fu Terza Pagina
La stampa statunitense ha prodotto i pezzi più significativi e ha proposto ai lettori una serie di spunti sui due film che non si trova negli articoli del giornalismo italiano.
È stato Style, la rivista de il Corriere della Sera dedicata “all’uomo e alle sue passioni: l'eleganza e i piaceri della vita”, a menzionare Coppola. Lontano dai tempi della Terza pagina, il vecchio posto fisso dell’argomento di cultura sul quotidiano, uno dei più grandi giornali italiani per tirature ha delegato la materia a una sua rivista minore, che a sua volta ha lasciato che a parlare fosse il famoso regista, senza esporsi e commentare. Si legge poi su un’altra rivista del Corriere, LogIn, dedicata alla tecnologia, l’innovazione e la scienza, che i due film sono usciti nello stesso giorno nei cinema statunitensi ed europei, ma non in Italia, dove Oppenheimer è stato posticipato al 23 agosto. La ragione, si legge, è che gli italiani a luglio non vanno al cinema quanto gli altri spettatori, ma questo non stimola alcuna riflessione sull’incapacità dei film di imporsi come forma d’intrattenimento rilevante per il pubblico italiano, né sulla crisi che affligge le sale cinematografiche già da prima della pandemia.
A tal proposito il Post spiega che, a differenza dell’America, dove “da diversi decenni è il periodo in cui esce il maggior numero di film statunitensi con alte aspettative di incasso”, in Italia diversi fattori, tra cui l’abitudine a vedere i film della passata stagione nelle arene all’aperto e la ritrosia a stare al chiuso nella stagione più calda, non hanno mai facilitato l’abitudine di andare al cinema durante l’estate, al punto che “per tanti anni tra giugno e agosto molti cinema sono rimasti chiusi, sono usciti meno film e quelli che uscivano incassavano poco, quindi solitamente non erano i più importanti”. Il sottotesto è che Oppenheimer lo spostiamo a dopo ferragosto perché è un film importante, Barbie no. Perché è frivolo.
Roba da donne
D’altronde anche Repubblica riduce Barbie alla storia della “bambola più famosa del mondo e al suo mondo di plastica rosa e ultrapop”, una storia “irreale” – contrapposta al “realistico Oppenheimer con l’incubo del nucleare (….), nuovo lavoro del pluripremiato (undici Oscar) Christopher Nolan”. Il Fatto Quotidiano contrappone i due film come si contrappongono “leggerezza e gravità assolute”, e seppure spenda complimenti nei confronti di Gerwig per i suoi precedenti lavori, Lady Bird e Piccole Donne, non vede nella sua più recente creatura che un “paradigma capitalistico in quanto fenomeno commerciale e di costume” – il film è di certo la più grande opera di marketing a vantaggio della Mattel – e “bellezza come plastico cliché fatto di sogno imbambolato”. Una tragedia, scrive, che viene da “Venere”. Non meno grave di quella che viene da “Marte”, l’atomica e l’olocausto, raccontata da Nolan in Oppenheimer, ma comunque un’altra cosa, un altro pianeta. Venere e Marte, appunto. Roba da femmine da un lato, roba da maschi dall’altro.
Ecco che entriamo nella battaglia tra i sessi incisa su celluloide; e se almeno possiamo accettare sia consuetudine ormai radicata per molte persone pensare che le bambole siano giochi per bambine soltanto, ci si può chiedere perché l’ansia di venire distrutti dalla bomba atomica insieme al resto del pianeta non debba essere affar da donne. Perché “leggerezza e pesantezza assolute” stanno a indicare qualcosa, una differenza di valore, un confine che non si oltrepassa, oltre il quale c’è un uomo così lontano dalla media, il “distruttore dei mondi”, che la mente fragile del pubblico femminile di Barbie non saprebbe capire, così immersa nella frivolezza della propria vita.
In realtà altri articoli affermano che Barbie sia “un film più profondo di quello che può sembrare”, come scrive Vogue Italia, seppur sottolinei che l’opera di Gerwig “non fa molto altro, oltre ad ammiccare in maniera manichea a questa società patriarcale – non che ci si aspettasse che la smantellasse – ci dice che c'è, che è sbagliata, fine”. “Questo è un film che apre conversazioni ma che non mette punti”, si legge ancora, “rimanendo politicamente corretto e fedele al mondo “terribile”, per citare Gloria (la proprietaria della Barbie), in cui viviamo”.
Un pezzo del New Yorker offre al contrario uno spunto più profondo sulle intenzioni della regista. Con un piglio quasi autobiografico, il periodico statunitense ha riportato l’accesissima discussione scatenatasi attorno al famoso marchio di bambole dopo l’uscita del film sul tema che è poi diventato la più infamante critica mossa a Barbie: la sua perfezione. L’autrice racconta che a molte bambine, lei compresa, piaceva rovinare le proprie Barbie. Deturparle, torturarle, smembrarle. Arrivava sempre un momento nel bel mezzo del gioco dove Barbie aveva bisogno di un tipo speciale di intervento chirurgico, o stava morendo, o era in pericolo. “Volevo guarirla, ma avevo anche bisogno che fosse malata. Volevo diventare Barbie e volevo distruggerla. Volevo la sua perfezione, ma volevo punirla per essere più perfetta di quanto sarei mai stata io”. Era forse questo un modo per far atterrare Barbie sulla Terra, farle abbandonare la dimensione irrealistica dell’ideale e confrontarsi con il reale. Allo stesso tempo fare i conti con la propria imperfezione, che afflige come una prova che l’ideale è inaccessibile e il proprio aspetto mediocre. “Una parte di me stava già inseguendo i falsi miti di cui parlava”, prosegue l’autrice, primo fra tutti la bellezza come una sorta di garante spirituale con come unico capolinea la tendenza autodistruttiva. Con questo il New Yorker vorrebbe dire che, nella sua semplicità didascalica, il film di Gerwig, che si apre proprio con le bambine che distruggono le proprie Barbie, ha capito la pericolosità del modello di perfezione proposto dalla bambola, ma anche e soprattutto la complessità di “provare entrambe le cose contemporaneamente: volere qualcosa e volerla distruggere. Voler diventare qualcosa e odiare te stesso per volerlo diventare”.
Amare il film, uscire dal film
Il fenomeno Barbenheimer permette di riflettere non solo sul cinema o sui significati più espliciti dell’opera cinematografica, ma anche di lasciarsi ispirare e traghettare verso altri discorsi – che è quello che dovrebbe fare l’arte, non chiudersi in se stessa ma costringere a parlare di altro ancora, creare altro ancora. Uscire dal film, usando il film come veicolo di idee.
La stampa anglosassone è sempre la più creativa da questo punto di vista. Il New Yort Times usa l’uscita dei due film come pretesto per parlare di linguistica. Di come “Barbenheimer” sia una “parola macedonia”, ossia un neologismo formato dalla fusione di due parole diverse, destinata a “funzionare” perché soddisfa i criteri spiegati in uno studio del 2015 di due linguisti americani, Constantine Lignos e Hilary Prichard – tra cui il fattore divertimento, data la rilevanza dei due film nella cultura popolare.
Un lungo articolo del Washington Post, in cui le riflessioni del Professore di studi ambientali del Bates College Tyler Austin Harper si accompagnano alle illustrazioni di Amanda Shendruk, intreccia le trame dei film di Gerwig e Nolan al problema ambientale, il che permette di usare il pretesto pop per spostare l’attenzione sulla significativa influenza dell’uomo sull’ambiente naturale, sulla creazione dell'Antropocene, il termine suggerito per la nostra attuale epoca geologica. “Nonostante le loro apparenti differenze”, sottolinea il Professore, “sia Barbie che Oppenheimer raccontano la storia delle idee fondamentali del ventesimo secolo: militarismo accelerato e consumo illimitato. (…) Da un lato, abbiamo la spettacolare visibilità e l'eccezionalità della bomba: il suo fungo atomico occupa il confine sfocato tra il sublime e il satanico. Dall'altro, abbiamo una crisi climatica stimolata in parte dall’uso quotidiano di prodotti in plastica satura di petrolio come Barbie, beni così onnipresenti nelle nostre vite che i loro danni sono quasi invisibili per noi - a differenza della bomba, producono gioia anziché terrore”. Sono dunque due “pesantezze assolute”, per riaggiustare le parole del Fatto. E ben reali, entrambe, per riaggiustare quelle di Repubblica.
Anche Rolling Stone Italia, nel suo piccolo, ha approfittato del fenomeno Barbenheimer, trasformando la sfida tra Barbie e Oppenheimer in uno scontro tra Mark Ronson e Ludwig Göransson, uno mago del pop e l’altro compositore classico, responsabili della colonna sonora dei due film.
Insomma, per citare Vox, sito web giornalistico statunitense, quello a cui stiamo assistendo “è più che solo nero e rosa posti fianco a fianco o una battaglia tra i sessi stampata sulla celluloide. È un meme. È uno stato d'animo. Una vibe. Uno stile di vita. È il fenomeno che potrebbe salvare il cinema così come lo conosciamo”. Mette in guardia il New York Times: il “picco di zucchero al botteghino” causato dal fenomeno Barbenheimer potrebbe essere di breve durata, poiché “i due film si collocano durante il periodo del doppio sciopero che ha portato l'industria quasi a un punto morto” (lo sciopero degli scenaggiatori e degli attori di Hollywood). E ancora: “l'hype intorno a Barbie e Oppenheimer potrebbe riaccendere l'amore per il cinema, ma potrebbero essere rimasti pochi titoli per trarne vantaggio”.
Eppure Vox insiste. Godiamoci il momento. “Quale modo migliore”, scrive, “per ricordare a tutti quanto sia divertente l'esperienza di sedersi su quei lussuosi sedili di velluto con enormi secchielli di popcorn e non fare niente per le prossime ore se non deliziare gli occhi e le orecchie con un commovente dramma sull'esistenziale crisi del ventesimo secolo? O un film in cui lei è tutto e lui è solo Ken? O entrambi? Perché non entrambi?”