Smettiamola di parlare di Ivy League
Mentre i media sono occupati a parlare di università di élite, i veri problemi della popolazione studentesca rimangono sullo sfondo.
L’arrivo della primavera non segna solo l’entrata nel vivo della stagione elettorale presidenziale negli Stati Uniti. Per centinaia di migliaia di studenti di scuola superiore all’ultimo anno (high school seniors) arriva il tanto atteso momento dell’ammissione al college. I giornali si riempiono di questi tempi di storie piene di ansia e trepidazione dopo quel lungo viaggio iniziato con la compilazione della domanda. Studenti nel panico per i risultati dei SAT, per la scrittura del saggio da includere nella richiesta di ammissione, la scelta delle attività extracurriculari utili a far emergere dalla massa il proprio CV, le fatidiche lettere di presentazione da ottenere. Poi naturalmente l’attesa. Mesi in cui questi poveri ragazzi controllano la posta spasmodicamente per capire quale università prosciugherà i risparmi di famiglia e li ricoprirà di debiti nel prossimo futuro.
Sono storie che nutrono anche la nostra immaginazione da questo lato dell’Atlantico. Hollywood ci ha riempito fino alla nausea di immagini di studenti che agognano un posto in campus neogotici ricoperti di edera a migliaia di km da casa, magari sperduti in una cittadina del New England, o sotto il sole della Silicon Valley. Come dimenticare le puntate di Una Mamma per Amica in cui la figlia di una madre single di una cittadina del Connecticut fa domanda solo per Harvard, Yale e Princeton (tanto poi pagano i nonni ricchi), con la compagna che subisce un esaurimento nervoso alla notizia che no, non andrà a Cambridge, ma a New Haven.
Come tante cose che il cinema e la tv ci raccontano sugli Stati Uniti, queste storie sono quanto di più lontano dalla realtà della maggioranza degli americani. Sorprenderà sapere che no, la maggior parte degli studenti non deve scrivere un saggio di ammissione, o esaurirsi dietro attività pomeridiane, o pregare i propri professori di scrivere referenze. Lo dicono proprio i dati del Dipartimento dell’Istruzione. L’80% degli universitari frequenta istituzioni che accettano più di metà delle domande, con l’Ivy League che conta meno dell’1% della popolazione studentesca. Sorprenderà anche sapere che la stragrande maggioranza delle università non sono frequentate da ventenni che vivono in dormitori, frequentano confraternite e feste, seguono corsi umanistici o al massimo di preparazione a un titolo magistrale in medicina o legge, solo per uscire con in tasca centinaia di migliaia di dollari di debiti e uno stage gratuito.
Più della metà degli studenti frequenta community college, istituti universitari pubblici che offrono titoli di due anni simili ai nostri master di primo livello, tante volte vicino casa, per poi trasferirsi presso università statali che offrano bachelor’s degrees di quattro anni. Un terzo lo fa part-time perché lavora per mantenersi, un quarto ha più di 26 anni. I corsi più popolari sono quelli di business o infermieristica.
Questo non vuol dire ovviamente che i media o Hollywood ci stiano mentendo. La cosa più probabile è che le redazioni di grossi giornali e le fila delle major cinematografiche siano semplicemente piene di persone provenienti proprio da quella frazione minuscola che frequenta le Ivy League, con figli che quindi probabilmente ne seguiranno l’esempio, amicizie formatesi nei campus. Questo crea una visione distorta della realtà con serie ramificazioni in termini di percezione pubblica e soprattutto politica.
Se qualcuno chiedesse fuori dai campus quali, oltre al costo eccessivo, sono i problemi dell’università americana, forse direbbe, a seconda dell’appartenenza politica: la censura e il razzismo del curriculum, la cultura woke o l’antisemitismo. Il dibattito pubblico è ingolfato da questi temi, con i media e la politica che alimentano la giostra alla ricerca di click e consenso. Nel frattempo i veri problemi dell’università americana, quelli che riguardano la stragrande maggioranza di persone che non ha mai visto Harvard, Yale, Stanford e Columbia, rimangono irrisolti sullo sfondo.
Ad esempio, gli ampi tagli degli stati al budget per il finanziamento delle università pubbliche non ottengono spazio sulla grande stampa. Dopotutto le scuole di elite non dipendono dai sussidi pubblici, ma da donazioni e grant, i cui meccanismi, soprattutto di questi tempi di guerre culturali, occupano molto spazio sui giornali. Persino la questione dei costi altissimi di accesso alla formazione universitaria, il più grande problema che gli studenti debbano affrontare, viene vista attraverso la lente dell’Ivy League. Tutti noi, quando pensiamo alla questione, immaginiamo studenti che escono da quei campus da film con un titolo di laurea e debiti per centinaia di migliaia di dollari. Dopotutto ai giornali piace molto raccontarci storie che calzano bene con questa narrazione.
La verità è che la gran parte di chi è iscritto a istituzioni private che chiedono tasse astronomiche sta frequentando corsi di laurea magistrali (graduate schools), in percorsi formativi e accademici che portano a lavori ben pagati in enti che assumono da università di élite. Il problema riguarda principalmente studenti con debiti di cifre molto inferiori (la media è sui 26.000 dollari), che faticano a trovare un lavoro che gli permetta di ripagarli e al contempo affrontare il sempre più alto costo della vita nelle metropoli americane. Più tragica è la situazione di chi abbandona il proprio corso di studi, uno studente su cinque. Una larga percentuale di questi, oltre a non avere un titolo, deve ripagare debiti, magari per cifre più modeste rispetto a chi termina il proprio percorso di studi, ma senza avere accesso alle stesse opportunità lavorative. «Il problema più grande è che le persone non hanno abbastanza tempo nelle proprie vite per frequentare i corsi e laurearsi», ha affermato anni fa Sara Golrdrick Rab, Professoressa all’Università del Wisconsin, a FiveThirtyEight.
Una porzione sempre più ampia della popolazione studentesca frequenta part-time, ha più lavori, mantiene la famiglia, paga rate del mutuo, il tutto mentre studia soprattutto presso community college o università statali. Ovviamente molte volte basta che una di queste variabili nella propria vita personale cambi e l’abbandono del corso di studi diventa una scelta obbligata. Il gioco vale la candela in ogni modo. Un titolo di bachelor rimane una delle strade più dirette per ottenere un lavoro qualificato che permetta la minima scalata sociale. Il che aggiunge pressione e questioni di salute mentali che ben poche istituzioni pubbliche sanno affrontare (a causa di mancanza di fondi e personale). Proprio per questo non è da sottovalutare l’impatto dei vari tentativi di Biden di offrire a questa porzione non insignificante di americani un aiuto federale per ripagare i propri debiti.
Questo perché mentre i media e la politica discutono di antisemitismo, cultura woke e del valore degli studi umanistici, le vere questioni, la limitata accessibilità dei corsi di studio nelle università statali, i processi amministrativi lenti per richiedere sussidi federali, il debito di chi non riesce a finire, e la completa assenza di canali per coniugare gli studi al lavoro e alla famiglia, rimangono irrisolte. Problemi che probabilmente chi vive nei dorati cortili di Harvard non ha, ma che rimangono la chiave per il futuro della formazione universitaria americana.