Siamo pronti a dire addio a Tiktok?
L'America si prepara a una stretta senza precedenti su TikTok, ma l'azienda fa di tutto per evitare un divieto totale
È presto per dire addio alla piattaforma cinese che in questi mesi fa wrestling con gli Stati Uniti per evitare il divieto. Questa battaglia può portare alla fine del mercato occidentale per la app oppure a una integrazione molto migliore per tutti noi.
Dovremo abbandonare TikTok, proprio ora che avevamo scoperto come funziona? La posta in gioco è alta, ma l’esito di questo dibattito è incerto e potrebbe essere conveniente - alla fine - per noi utenti.
Dei rischi legati alla privacy dei nostri dati e all’uso che TikTok – e indirettamente il governo cinese – potrebbe farne si discute ormai da mesi, per non dire da anni. Trump su questo fu un vero trendsetter, perché si pose il problema già nel 2020: in che misura Pechino controlla la app? Trump being Trump, però, la pratica venne archiviata dai Dem subito dopo l’elezione di Biden e la discussione mediatica finì lì. Preciso “mediatica”, però, perché in realtà della gestione della privacy e dei dati degli utenti TikTok non ha mai smesso di occuparsi, in particolare sollecitata dalle autorità europee a trovare un accordo che rispettasse il nostro amato GDPR comunitario. Non a caso già entro il 2023 dovrebbe aprire a Dublino un centro di stoccaggio per i dati degli utenti europei e britannici, una “mano tesa” della app all’Unione europea che non è certo stata messa in piedi l’altro ieri.
Sul fronte delle azioni intraprese però, al di là del divieto della app sui telefoni aziendali di Parlamento e Commissione, per il momento l’Europa sembra stare in standby, in attesa forse di vedere che vento tira negli Stati Uniti. È lì infatti che TikTok si sta giocando tutto, possiamo dire: se la community americana crollasse – con oltre 110 milioni di utenti – l’effetto a cascata sul resto dei Paesi occidentali sarebbe probabile.
TikTok Global non può permettersi che gli Stati Uniti (di gran lunga il primo mercato extra-cinese) facciano un passo indietro. Lo dimostra l’audizione del Ceo Shou Zi Chew di fronte alla House Committee on Energy and Commerce, il 23 marzo scorso. Obiettivo? Ribadire che «TikTok non ha mai condiviso o ricevuto una richiesta di condivisione dei dati degli utenti statunitensi con il governo cinese. Né TikTok onorerebbe tale richiesta se ne fosse mai fatta una»; ma anche che «ByteDance (la società madre di TikTok, ndr) non è un agente della Cina o di qualsiasi altro Paese».
Un tono rassicurante e conciliatorio, in contrasto con quello adottato solo qualche ora dopo dal portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Mao Ning, che ha accusato gli Stati Uniti di aver «avviato persecuzioni politiche xenofobe nei confronti di TikTok». Insomma, Pechino vede nella diffidenza di Washington nei confronti della app una mera “scusa politica” per danneggiare le aziende concorrenti dei grossi social a stelle e strisce. Ipotesi magari non vera al 100%, ma di certo non basata sul nulla: che le relazioni tra i due Paesi non vivano un momento d’oro è un eufemismo e lo sappiamo. Le decisioni prese dagli USA in questo caso potrebbero influenzare direttamente anche la gestione di altre app cinesi presenti nel mercato americano, attuali o future.
Al di là dell’aspetto politico, ciò che è interessante è comunque che tutti i social, una volta diventati grandi, debbano attraversare quello che sembra ormai un rito di passaggio in cui spiegano “chi sono, cosa vogliono, da dove vengono”. Ve lo ricordate Mark Zuckerberg in giacca e cravatta quando, nel 2018, dovette difendere il modello di business e la stessa esistenza di Facebook di fronte al Congresso, dopo lo scandalo Cambridge Analytica e le rivelazioni sulle interferenze di Facebook nelle presidenziali? Zuckerberg si scusò, ammise gli errori, propose delle soluzioni. Funzionò, perché ammettiamolo: la maggior parte di noi oggi si è dimenticato dello scandalo e continua a usare le app di Meta (nome introdotto proprio successivamente, in coincidenza con il lancio della sfida del metaverso) senza troppe preoccupazioni.
È chiaro che per TikTok sarà necessario qualche sforzo in più: le parole del CEO non bastano a rendere Pechino, con le sue regole sulla privacy e sulla trasparenza che a noi paiono così opache, un Paese vicino come invece ci sembra siano gli Stati Uniti. La diffidenza nei confronti della Cina viene da lontano, e le indagini dei media internazionali su come la piattaforma ha usato i dati degli utenti occidentali di certo non aiutano.
Quello che può risultare dalla pressione messa alla app però è che, pur di non perdere il mercato impressionante guadagnato, TikTok offra garanzie di tutto rispetto. Se non la cessione della società in mani occidentali, come chiedono gli americani, già l’impegno ad introdurre la partecipazione di società terze indipendenti per il controllo della corretta gestione dei dati e lo stoccaggio dei dati europei in “terra GDPR” sembrano ottime notizie per chi ama la app. Che, è giusto sottolinearlo, ha un potenziale creativo molto interessante. Negli Stati Uniti già si sono viste diverse manifestazioni pro-TikTok, alimentate dall’invito alla “mobilitazione” diffuso proprio attraverso la app. Se dovesse valutarsi il divieto anche in Europa, noi cosa faremmo?
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