Servono le riparazioni? Una prospettiva storica
Analizzare alcuni casi di riparazioni in forma privata è utile a comprendere perchè oggi siano politicamente necessarie
Parlare di riparazioni, e in special modo di quelle a vantaggio degli afroamericani come rimedio agli anni vissuti in schiavitù, è sempre complesso e divisivo. Non è infatti un tema che unisce il Paese, e nemmeno lo stesso Partito Democratico, più vicino alle tematiche di giustizia sociale ed eguaglianza razziale: secondo un rapporto Reuters/IPSOS, solo il 58% delle persone nella base dei Dem è a favore di questa possibilità. Chi le propone ritiene fondamentale una compensazione per espiare le colpe del passato, chi le osteggia pensa che i pronipoti degli schiavisti non siano in alcun modo responsabili dei crimini commessi dai propri antenati.
Nel 2014 lo scrittore Ta-Nehisi Coates riaprì una discussione da anni in sordina con un lungo pezzo sulla rivista “The Atlantic” intitolato “The Case for Reparations”, in cui argomentava la necessità di queste attraverso una visione della storia del suo Paese sempre volta a rendere i neri una classe di pària. Come ha poi sottolineato la ricercatrice Anne Bailey, le grandi famiglie bianche si sono arricchite creando beni attraverso manodopera non pagata, e hanno essi stessi ricevuto compensazioni per la perdita, con il Proclama di Emancipazione, delle loro “proprietà”.
Nel 1849, in un discorso tenuto nell’aula del Senato, il senatore John Calhoun, esponente di quel Sud che poi un decennio dopo si sarebbe staccato dall’Unione, diceva apertamente che la divisione sociale negli Stati Uniti non sarebbe dovuta essere tra ricchi e poveri, bensì tra bianchi e neri, in una situazione per cui i primi avrebbero sempre dovuto avere diritti e opportunità, a differenza dei secondi. Col termine dello schiavismo e l’arrivo delle politiche segregazioniste del regime di Jim Crow si è determinata l’impossibilità dell’avanzamento nella scala sociale del cittadino nero. La storia dell’afroamericano è sempre quella di una condizione di inferiorità, chiaramente migliore rispetto al periodo delle catene schiaviste, ma sempre destinato a minor ricchezza e minori scelte. Chi crede nelle riparazioni ha l’idea che possano essere quindi l’inizio di un processo che rilevi le differenze etniche americane e porti le persone a comprendere che, a oggi, nascere afroamericano genera ancora disparità a tutti i livelli. Centrale è quindi la comprensione che la disparità economica tra le etnie è strettamente legata al razzismo, con la schiavitù prima e la segregazione poi.
Non esistono molti casi di riparazioni fornite da un governo a una minoranza vessata; dei pochi esempi, però, ben due fanno parte della storia del Novecento americano. Dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, era stata costituita la Indian Claims Commission con lo scopo di pagare compensazioni a tutte le nazioni nativo-americane formalmente riconosciute dal governo. Non possiamo definirlo un esperimento riuscito, in primis per la somma risibile stanziata (1,3 miliardi, meno di mille dollari a persona) e successivamente perché, con un’idea evidentemente paternalistica, i soldi non venivano dati direttamente agli individui da ricompensare, non adatti secondo il Governo alla gestione economica di un patrimonio, ma ad associazioni che avrebbero dovuto sviluppare progetti per le comunità.
Il secondo esempio riguarda le riparazioni per i nippo-americani che, durante il Secondo conflitto mondiale, avevano perso case e possedimenti ed erano stati costretti nei campi di internamento. Il presidente Carter aveva avviato un processo di studio costituendo una commissione ad-hoc per valutare danni e impatto sociale sulla minoranza in questione, che aveva decretato l’internamento un provvedimento ingiustificabile anche al netto delle condizioni speciali di guerra in cui gli Stati Uniti si trovavano in quel momento. Terminati i lavori si giunse a una legge in Parlamento, il Civil Liberties Act, co-sponsorizzato in maniera bipartisan da Norman Mineta, Democratico della California, e Alan Simpson, Repubblicano del Wyoming. Si decretò la nascita di un trust fund, che garantì riparazioni da venti a sessantamila dollari per gli internati e un programma di educazione pubblica per fare maggiore luce sugli avvenimenti. Possiamo definirlo l’esempio meglio riuscito di programma riparativo sul suolo americano.
Per quanto concerne invece le possibili riparazioni tra afroamericani e bianchi è utile addentrarci in un quadro storico; il primo esempio di un sistema del genere, avvenuto però tra privati, risale addirittura al 1783, quando la schiava liberata Belinda fece una petizione al Commonwealth del Massachusetts per ottenere riparazioni. La donna era stata rapita da bambina in Ghana, portata nel continente americano attraverso la tratta, e aveva vissuto da schiava per 50 anni nelle proprietà di Isaac Royall, lealista britannico che era tornato in madrepatria dopo la sconfitta nella Guerra d’Indipendenza americana. Proprio la scomparsa del suo padrone aveva fatto sì che ottenesse la libertà e, dopo l’accettazione della richiesta, una pensione di 15 pounds e 12 scellini da pagarsi tramite le proprietà dello schiavista. Questo perché, agli albori della Repubblica, non era strano incappare in casi del genere: i quaccheri del Nord-Est, ad esempio, erano fermamente convinti che gli ex-schiavi andassero compensati in qualche maniera per gli anni perduti.
Il primo grande tentativo di costruire un progetto riparativo avvenne alla fine della Guerra civile. Nel 1865, poche settimane prima della resa della Confederazione, il Generale Sherman si incontrò a Savannah, in Georgia, con venti esponenti afroamericani per chiedere quali fossero le loro rivendicazioni. Il reverendo Frazier, uno dei partecipanti all’incontro, che anni prima si era comprato la libertà, disse che per lui sarebbe stato importante poter lavorare mantenendo per sé i frutti della fatica. La richiesta, quindi, era quella di terra da poter coltivare. Proprio per questo, dopo l’ascolto, venne elaborato lo Special Field Order 15, che confiscava parte della terra dei proprietari del Sud per donarla ai neri: eravamo di fronte al primo atto riparativo di tipo politico e non personale. Il provvedimento venne riconosciuto come “40 acres and a mule”, per l’appezzamento di terra che veniva gratuitamente concesso a un singolo nucleo familiare, per l’appunto 40 acri di terreno (poco più di 16 ettari) e un mulo. Appena dopo la morte di Lincoln, però, il presidente Andrew Johnson proclamò un’amnistia per i secessionisti e con il Restoration Program i neri tornarono in condizione di inferiorità cadendo nel sistema economico dello sharecropping, la nuova semi-schiavitù che resistette durante Jim Crow. Il concetto di “40 acres and a mule” divenne il simbolo delle promesse disattese della Ricostruzione, e diede anche il nome alla casa di produzione cinematografica di uno dei registi Afroamericani più politicamente impegnati di sempre, Spike Lee, da sempre attento ai temi del razzismo e della progressione sociale della comunità.
Con l’abbandono del Sud da parte dei militari del Nord e la fine del progetto della Ricostruzione la violenza politica tornò ad essere incentivata, con pogrom e linciaggi sempre più frequenti. Si smise di parlare di riparazioni a livello governativo e si tornò ad ottenerle in forma singola nelle aule di tribunale: uno dei casi più importanti è quello di Henrietta Wood. Nel 1853 questa donna, libera, stava lavorando come domestica a Cincinnati, in Ohio, quando venne rapita e portata in Kentucky attraverso l’Ohio River; lì venne presa in custodia dallo sceriffo di Kenton County, Zebulon Ward, che la vendette a un mercante di schiavi. Smise di essere schiava nel 1866 e si presentò in tribunale chiedendo un risarcimento per il rapimento, per la somma di 20mila dollari. La giuria le riconobbe la somma di 2500 dollari – equiparabili a 65mila odierni – per la perdita della libertà. Fu molto meno di quanto richiesto, ma la sua storia è emblematica di cosa fossero diventate le riparazioni: queste erano state cancellate da un punto di vista politico ed erano diventati meri atti giudiziari, e quindi depotenziate. Per di più la giustizia dava ragione a Wood per un semplice motivo: non era mai stata schiava, e quindi era stata catturata ingiustamente. Il suo risarcimento non riguardava quindi la schiavitù in quanto tale, ma solo il fatto che a lei questa sorte, che per alcuni era legalmente corretta, non sarebbe dovuta toccare.
Altro caso interessante si colloca in Florida, nella cittadina di Rosewood, un sobborgo nero: qui, a capodanno del 1923, degli uomini bianchi appiccarono degli incendi, con il pretesto di colpevolizzare un residente del posto, senza alcuna prova, per il pestaggio di una delle loro mogli, in una concezione performativa e tribale della giustizia che terminava sempre con l’assalto e l’omicidio dei presunti assalitori. Se all’epoca chiaramente nessuno testimoniò a favore della comunità nera le cui abitazioni vennero barbaramente bruciate, la storia tornò di dominio pubblico tramite un’inchiesta del programma televisivo 60 Minutes della CBS nel 1993. Alcuni avvocati riuscirono a ottenere riparazioni per i discendenti, e lo fecero, in pieno Sud, senza nominare mai la parola, chiaramente tabù, ma chiedendo una compensazione per alcuni cittadini data la perdita della loro proprietà. I soldi arrivarono ai discendenti, ma al costo di aver reso la situazione color-blind, puntando sulla perdita delle proprietà e non sul linciaggio a sfondo razziale.
Alla luce di queste storie è chiaro che le riparazioni funzionano se generano nelle società un interesse per i motivi che hanno portato a queste, se è lo Stato che si pone come tutela delle minoranze colpite decretando la giustezza delle rivendicazioni. È il momento di andare oltre le forme private e i risarcimenti in via giudiziaria, costruendo un sistema di riparazioni pubblico attraverso il potere politico.