Mi sono imbattuta per la prima volta in Melanie Rehak nel 2016, leggendo il romanzo di Paula Fox Storia di una serva (Fazi Editore, 2008, trad. Gioia Guerzoni, A Servant's Tale, 1984): il suo nome compare esattamente a pagina 7, sotto il titolo dell'introduzione, Verità e conseguenze. È un testo essenziale, semplice: ogni parola di questa breve prefazione è esatta, incisiva, e rivelatrice della straordinaria potenza dell'opera di Paula Fox. «La verità è caotica», scrive Rehak
«[...] Sapete anche che è necessaria. La verità può essere bellezza, è vero, ma più spesso racchiude dolore e delusione, quell'attimo cristallino in cui il velo cade per sempre dagli occhi e non c'è più nulla dietro cui nascondersi».
Leggere Paula Fox e in generale, molte scrittrici americane contemporanee, significa affrontare esattamente questo: il dolore e la rassegnazione del disvelamento. Storia di una serva ha il pregio di raccontare una scomoda verità, qualcosa con cui tutte le donne, prima o poi, devono fare i conti, anche nella letteratura. Sarebbe riduttivo definire questo libro come la semplice storia di una domestica: Paula Fox non usa mai le parole a caso, perciò, in apparenza, la storia sembra essere semplicemente quella della domestica Luisa, che dall’isola di San Pedro arriva negli Stati Uniti per curare e pulire le case della borghesia newyorkese. A rendere straordinario il romanzo è il senso di costrizione, inesorabile e continuo, che pervade ogni singola pagina. Luisa è una donna bloccata in una vita che non vuole, ma che non può cambiare: sogna il suo Paese, un luogo che forse non c'è più, ma è costretta a vivere e lavorare chiusa in un appartamento. La libertà non esiste nel mondo di Paula Fox: si è prigionieri fra quattro mura senza neppure saperlo, senza neppure essere in grado di urlare. Molti dei romanzi della scrittrice statunitense, scomparsa a Brooklyn nel 2017, sono ambientati in una casa o nell'intimità di una stanza: è lì che le sue protagoniste si trovano davanti la verità. La vita di queste donne è tremendamente legata all'ambiente domestico: sembra quasi che la loro esistenza sia inseparabile dall'aspetto materiale e privato dei luoghi e non è un tema dimenticato dalla letteratura americana contemporanea. Anzi, il legame - sia sotto forma di costrizione che di apparente liberazione - tra scrittrici e dimensione domestica, è sempre presente. Basti pensare che Storia di una serva è stato pubblicato nel 1984, negli anni in cui l'emancipazione femminile veniva raccontata dal cinema e dalla letteratura come inscindibile dal lavoro e dalla carriera. In un saggio di qualche anno fa intitolato Lessico femminile (editori Laterza, 2019), Sandra Petrignani, riprendendo le parole di Fabrizia Ramondino, si sofferma sulle difficoltà che le donne, e le scrittrici in particolare, incontrano nell'«esprimere le proprie potenzialità». L'urgenza di scrivere appare nella vita di molte di loro come l'unica possibilità di esistere anche al di fuori di una casa: l'esempio più eloquente, ma anche il meno recente, è Flannery O'Connor, scomparsa a soli 39 anni, a causa della malattia ereditata dal padre. Nata e cresciuta nel profondo Sud si scontrò fin da subito con la volontà di ricercare la verità e con il bisogno che il mondo riconoscesse il suo talento. O meglio, come racconta la stessa Petrignani, che il suo talento fosse riconosciuto nonostante si nascondesse nel corpo minuto e fragile di una «signorina» chiusa in casa. Se c'è una cosa più difficile che lottare per la propria identità, è sicuramente farlo da dietro una finestra. Amy Hempel, giornalista e autrice di racconti tra i più intensi degli ultimi anni, ha scritto un piccolo saggio, pubblicato in Italia nella raccolta In punta di penna. Riflessioni sull'arte della narrativa (minimum fax, 2019, trad. Sara Bilotti e Luca Briasco, Why I Write. Throughts on the Craft of Fiction, a cura di Will Blythe): interrogata insieme a vari scrittori, deve rispondere alla semplice domanda “perché scrive?”. Le sue motivazioni sono nascoste dietro immagini nitide e bellissime: la prima ha a che fare con la vergogna. Hempel ammette di essere timida e che molte situazioni nella vita la fanno arrossire. Solo due cose non provocano in lei questa reazione: stare con i cani e scrivere: «Ne deduco quindi che queste due attività siano correlate a una stessa domanda: In quale momento della tua vita riesci a essere davvero te stessa?». La seconda motivazione riguarda, invece, i cerchi nel grano: Hempel ne parla in maniera unica per una ventina di righe e, alla fine, quando il lettore è ormai rapito, afferma «Credo che scrivere sia come usare una falce nel buio più pesto, per poi veder emergere, al mattino, se sei fortunato e guardi le cose dall'angolazione giusta, un disegno nitido e misterioso».