Scrivere dal “buco”, raccontare il vuoto: il carcere duro sui giornali americani e italiani
Quali sono le differenze nel carcere duro tra gli Stati Uniti e l'Italia? Il racconto dei giornali dal carcere
«Il buco mi ha rovinato», scrive Jeffrey McKee. Il “buco” – «immagina una stanzetta 2x3 con il gabinetto a mezzo metro da dove dormivi, da dove mangiavi» – è la cella d’isolamento in cui è stato rinchiuso in un carcere dell’Arizona. Per trenta giorni la prima volta. Dal 2006 ci è tornato altre quindici. Ora McKee soffre di attacchi di panico quando è in mezzo alle persone. Bastano piccoli gruppi per metterlo in agitazione. Sente ancora i sussurri, quelli dei mostri che vedeva in cella. Soprattutto, pensa e sente «cose così intense che, se articolate, lo rispedirebbero nel buco a tempo indeterminato», per sempre.
McKee racconta che in America, secondo i dati del 2019, si stima che tra le 55 mila e le 62.500 persone in carcere abbiano trascorso almeno quindici giorni in isolamento ma, spesso, il confinamento dura più di un mese. La pratica iniziò in Pennsylvania nel 1790, nella prigione di Walnut Street a Filadelfia. Il governo nel corso degli anni le ha dato tanti nomi dal suono clinico a cui corrispondono le relative sigle: Segregazione amministrativa o disciplinare (Ad-Seg/D-Seg), Unità di gestione del comportamento (BMU), Unità Abitativa Speciale o di Sicurezza (SHU), Unità Terapia Intensiva (IMU). Tuttavia, chi ci è entrato preferisce chiamarlo “buco” perché rende meglio com'è vivere in una minuscola cella per circa ventitré ore al giorno, segregati dal resto della popolazione carceraria. Così è più semplice capire perché McKee prendesse a testate il muro, e perché abbia smesso di mangiare e bere. Voleva morire.
Conosciamo la sua storia grazie a Prison Journalism Project, un'organizzazione indipendente fondata nell'aprile 2020 per formare scrittori incarcerati a diventare giornalisti e pubblicare le loro storie. Non è il primo progetto nato per consentire a una comunità emarginata di farsi portavoce della riforma della giustizia penale. C’è anche American Prison Newspapers, che riunisce le centinaia di periodici scritti all’interno delle carceri statunitensi in un’unica raccolta. Negli ultimi 200 anni, si legge sul sito dell’organizzazione, in America sono stati pubblicati oltre 500 giornali dalle carceri. Con gli Stati Uniti a detenere il record mondiale sul numero di detenuti – oltre due milioni nel 2019 – queste pubblicazioni rappresentano gran parte della storia dei media americani.
“Tortura democratica”
In Italia, i giornali dal carcere, cartacei e online, sono circa una sessantina. Tra questi, “Innocenti evasioni”, “Spiragli”, “Altrove”, “Oltre il muro”. Spesso sono testate regolarmente registrate in tribunale e destinate ad una diffusione ampia. I detenuti, quelli che lo desiderano e che vengono ritenuti idonei, frequentano un corso di giornalismo, imparano a fare il giornale, a raccontare la propria storia, nell’ambito di un progetto di recupero. Laddove il carcere limita il più possibile la frequenza dei contatti con l’esterno, scrivere può essere un modo per restare incollati alla realtà: a quella della cella, che viene raccontata, e a quella del mondo fuori, che ascolta.
La necessità di raccontare e raccontarsi diventa ancora più acuta se prendiamo storie come quella di Jeffrey McKee o di Alfredo Cospito, il primo anarchico a essere sottoposto al 41-bis, il carcere “duro”. Questa forma carceraria speciale, contro cui Cospito sta digiunando da ottobre 2022, è una norma ideata da Giovanni Falcone per limitare il più possibile la frequenza dei contatti con l’esterno degli esponenti di vertice delle organizzazioni criminali, e quindi evitare che i capi mafiosi continuino a comandare dal carcere. Venne varata solo dopo che lui morì nella strage di Capaci. Il detenuto è sempre in cella da solo, e ha diritto fino a tre ore di socialità con altri. Ha limitazioni nei contatti con l’esterno. Può avere un solo colloquio, registrato, da dietro un vetro, con i familiari, anziché quattro al mese come gli altri.
La giornata dei detenuti al 41-bis è scandita dalla totale assenza di attività. Il Post riporta le parole di Carmelo Musumeci, che ha trascorso in carcere venticinque anni, di cui cinque in regime di 41-bis, condannato all’ergastolo per omicidio e per appartenenza a un’organizzazione criminale: «Definisco quel tipo di detenzione una “tortura democratica”. Il 41-bis è un regime dove perdi totalmente la gestione della tua vita, spesso anche dei tuoi pensieri. Ti spogliano della tua identità. Diventi a tutti gli effetti un fantasma».
Lo stesso senso di alienazione è forte nella poesia di J. C. Raynard, pubblicata dal Prison Journalism Project. La sensazione di essere strappati dalla realtà, derubati anche della possibilità di leggere e di studiare, ma non di quella di sognare, di immaginare un altrove in cui fuggire.
How can I explain what I see?
Freedom lies a mere 30 feet away, yet it’s years from me.
Trapped in a world inside of a world. Separated from society,
meditating to keep a peace of mind and control my anxiety,
eager for the day I can leave this place.
Until then, my imagination and dreams are my only escape.
Books that are good for me you eliminate,
which makes it harder for me to self-educate.
One thing I’ve learned while doing my time,
is that I’m where you want me to be, but I am everywhere else in my mind.
Le inchieste
Alla poesia si affianca la realtà prosaica del giornalismo d’inchiesta. Tra le pubblicazioni del Prison Journalism Project c’è spazio anche per veri e propri articoli di denuncia, reportage che puntano il dito contro nomi e numeri. Come nel caso del pezzo di Channel Burnette contro il Fluvanna Correctional Center, carcere femminile in Virginia.
Burnette riporta che nel 2012, il Legal Aid Justice Center ha intentato un’azione legale collettiva contro la prigione, sostenendo che il Fluvanna stava fornendo “cure mediche costituzionalmente inadeguate” alle 1.200 donne detenute. Ha inoltre riscontrato che, in più occasioni, i membri del personale di sicurezza hanno risposto in ritardo alle richieste delle donne. In due di queste occasioni, afferma il rapporto, i ritardi hanno costretto le donne a urinare o defecare nei sacchetti perché la maggior parte delle celle di Fluvanna non dispone di servizi igienici.
Questa spinta a lasciare che sia il detenuto a raccontare la vita carceraria lascia però intravedere anche una grossa falla nel sistema. Che i media non sappiano parlare della condizione reale delle carceri. Che i media utilizzino frame che incoraggiano la stigmatizzazione, e la disperazione, del detenuto anziché spingere alla riforma e al cambiamento.
In uno studio del 2021 sull’uso e l'impatto delle etichette usate nella copertura mediatica, FWD.us evidenzia che i media americani usano un “gergo disumanizzante” nei confronti dei detenuti. Nonostante i progressi registrati negli ultimi anni, la stragrande maggioranza delle testate giornalistiche continua a utilizzare etichette dannose come “condannato” e “criminale” per descrivere i protagonisti delle loro storie, anche quando i giornalisti mirano a far luce su casi di ingiustizia e abusi di potere.
FWD.us ha quindi condotto una ricerca sulle storie pubblicate tra il 2000 e 2020 sul New York Times, Los Angeles Times, Chicago Tribune, Miami Herald, The New Orleans Times-Picayune e New York Post, oltre che da agenzie di stampa locali, statali e nazionali dell'Associated Press. Lo studio ha trovato più di 10 mila articoli pubblicati solo nel 2020 che includono i termini "criminale" o "delinquente", termini usati in media due volte al giorno solo nei cinque principali quotidiani. Associated Press ha utilizzato termini disumanizzanti ancora più spesso: diciotto volte al giorno in media nel 2020.
La disumanizzazione dei detenuti
Un elemento interessante è che, nonostante le storie sul carcere siano intrise di termini disumanizzanti e sprezzanti, allo stesso tempo, negli ultimi trenta anni, la cultura popolare negli Stati Uniti ha dimostrato una straordinaria ossessione per le carceri. Film, serie TV, reality show, siti web, giocattoli, moda e destinazioni turistiche basate sull'incarcerazione dimostrano un certo gusto, un certo appetito, per la rappresentazione della vita dietro le sbarre. Rappresentazione tuttavia irrealistica, spettacolarizzata quando non è stigmatizzante, e che non ha nulla a che vedere con la reale condizione dei detenuti. Già nel 2009, Eleanor Novek scrisse che l’«intrattenimento carcerario è diventato americano quanto il football».
Sull’incapacità dei media di costruire un racconto dignitoso e veritiero sul carcere si era espressa anche l’ex presidentessa dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, Letizia Gonzales, nel 2013. Seppur lontano dal livello di spettacolarizzazione del giornalismo americano, quello dell’eroe maledetto o del condannato-mostro, anche il giornalismo italiano ha bisogno di regole deontologiche che lo raddrizzino, regole che si trovano nella Carta di Milano del 2013. La Carta fu proprio «il tentativo di rispondere ad una sorta di imbarbarimento della nostra professione, in tutti i casi nei quali, anche per la fretta e la velocità con cui spesso siamo costretti a lavorare, i media finiscono per creare mostri invece di parlare di persone che hanno commesso reati, anche mostruosi, ma che restano in ogni caso persone».
Ci si accorge così di una cosa: che non soltanto sono persone, ma che restano persone, nonostante la cella e l’isolamento proibiscano il contatto con le cose più semplici della vita umana. C’è, in un’altra poesia pubblicata dal Prison Journalism Project, in cui l’ex detenuto Travis Britt ricorda come immaginava il mondo fuori dalla prigione statale di Pelican Bay, uno sguardo quasi più innocente, incantevole, che nelle persone comuni, sulle banalità del mondo “libero”: un unico, solitario segnale di stop ammaccato e sbiadito dal tempo, boschi d'ambra immersi nella lucentezza estiva dell'aurora, ragnatele che scintillano tra arcobaleni traslucidi, un dorato skyline autunnale, «opera di Dio in vivida esposizione». Lascia una nota a fine poesia, come a giustificarsi per versi tanto dolci.
«Ho trascorso nove anni nella prigione statale di Pelican Bay e questa poesia è un arazzo per raccontare la storia della mia vita durante quel periodo. È la storia di un giorno che si ripete per nove anni. Si ripete ancora nella mia mente ogni volta che la notte è più buia del solito. Quel giorno buio è in contrasto con la bellezza e la meraviglia della poesia che ho scritto per sfuggirgli».